Lettera aperta al capo dello Stato
In una lettera aperta pubblicata sulla prima pagina de La Stampa la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni si rivolge al capo dello Stato Sergio Mattarella a pochi giorni dalla sua visita in Israele. Il tema è il recente voto della vergogna all’Unesco che (con l’astensione dell’Italia) ha riscritto millenni di storia ebraica. “Diverse – scrive Di Segni – le civiltà del passato che hanno violato e distrutto il nostro Tempio. Diverse le ragioni che nei secoli hanno fatto percorrere ai pellegrini la lunga distanza dai remoti luoghi di provenienza. Come non comprendere che oggi gruppi estremisti e aggregazioni di ogni genere, che di civile nulla detengono, cercano la distruzione e l’annientamento? Come accettare che l’Unesco, agenzia preposta allo sviluppo della cultura, si esprima in tal modo? Per ben due volte, a distanza di pochi giorni, nonostante chiari segnali d’allarme, il rappresentante italiano ha scelto attraverso l’astensione di rimanere in silenzio. Un silenzio che dimentica le raffigurazioni riportate sull’Arco di Tito. Un silenzio assordante. Un silenzio che concorre ad un negazionismo contro il quale oggi tutti alziamo la voce”.
“Illustre Presidente – sottolinea Di Segni nella conclusione del suo intervento – le scrivo perché gli ebrei italiani restano fiduciosi che dall’alto del suo prestigio il Quirinale possa risvegliare un orientamento di saggezza ed equilibrio, l’unico che possa rappresentare i sentimenti di tutte le identità e di tutti i cittadini, e affermare i nostri più importanti valori costituzionali. Non abbiamo altro da chiedere che tenere in alto l’onore dell’Italia e garantire al nostro Paese un ruolo da protagonista nell’immenso lavoro di costruzione della pace che ci deve vedere tutti impegnati”.
Molte le voci a levarsi ancora contro il voto Unesco. Scrive su Avvenire il vescovo Ambrogio Spreafico, presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei: “Ebrei, cristiani e musulmani hanno oggi la responsabilità di condividere i luoghi così santi di Gerusalemme, perché siano portatori di pace per il mondo intero. Se Gerusalemme resta ‘città della pace’, rendiamola tale con l’incontro e il dialogo, al di là delle pur legittime rivendicazioni di ognuno”.
Il Corriere del Veneto registra tra gli altri l’intervento del rabbino capo di Venezia Scialom Bahbout, che ha inviato ieri un messaggio ai rappresentanti del partito popolare europeo riuniti in Laguna per un incontro. Il quotidiano Il Foglio pubblica oggi la traduzione in italiano (a cura dell’Associazione Progetto Dreyfus) del recente intervento del premier israeliano Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite. “Il pregiudizio ossessivo contro Israele – spiegava Bibi in quella circostanza, davanti all’assemblea – non è solo un problema per il mio paese, è un problema per i vostri paesi”.
Il Giornale racconta invece la storia dei soldati musulmani “che giurano fedeltà a Israele e combattono gli islamisti”.
Sul Tempo, inquietante editoriale in prima pagina sulla sentenza della Corte d’Appello di Milano che ha prosciolto due militanti di Casapound che avevano fatto il saluto romano in occasione di una recente commemorazione.
“Se è consentito il pugno chiuso – si legge – giusto sia lecito anche il braccio teso. Oddio, che poi tanta parità non è, visto che dietro il pugno chiuso si celano ancora tanti sfasciavetrine e appassionati di sampietrini. Mentre il saluto romano è solo memoria e in qualche caso esibizionismo. Se qualcuno l’ha capito, comunque, è già tanto”.
Sul Corriere Sette, Stefano Jesurum ospita oggi una lettera dell’anglista Dario Calimani. “Ci stiamo abituando a sentir dire che ogni massacro è una Shoah, che ogni crimine in giro per il mondo è nazismo, che ogni annegamento di migranti è un genocidio. La ricerca di analogie fra le tragedie del presente e quelle del passato sono forse una spia della nostra incapacità di guardare in faccia la realtà com’è. Tutto è relazione. Eppure, l’annegamento di un migrante è una tragedia anche se non si cercano paragoni o metafore; anzi – sostiene Calimani – la metafora lo spersonalizza, ne banalizza la storia e la appiattisce”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
(21 ottobre 2016)