Differenze ed eguaglianza
Se si dovesse dare ragione ai Clinton, i grandi sconfitti in questa tornata elettorale per le presidenziali, tutto ruoterebbe intorno all’economia. La quale girerebbe bene. D’abitudine, infatti, Bill gradisce dire che: «It’s the economy, stupid!», che è poi un po’ la versione in salsa democratica della famosa battuta: «è il mercato, bellezza!». A dare uno sguardo molto veloce e sintetico, ma già di per se stesso indicativo delle tendenze di fondo, parrebbe quindi che con la presidenza Obama le perfomance economiche siano migliorate o abbiamo comunque raggiunto un livello accettabile rispetto alle aspettative e alle esigenze della popolazione. Secondo i dati ufficiali la disoccupazione è calata al 4,9% (ottobre 2016) mentre il prodotto interno lordo risulta essere cresciuto del 2%. Senz’altro meno di quanto ci si aspettasse ma comunque meglio di ciò che l’Unione europea e il Giappone, i due altri grandi protagonisti planetari dell’economia a sviluppo avanzato, hanno saputo garantirsi. L’uscente maggioranza democratica, tiepidamente riconosciutasi intorno alla candidatura di Hillary Clinton, ha quindi ripetuto, in tutti i dibattiti elettorali, come gli Stati Uniti si siano oramai avviati sulla strada del superamento del lungo frangente della crisi, innescatosi poco meno di una decina di anni fa. In realtà, scorporando i dati, le cose appaiono molto diverse. E sviscerandole anche solo un poco si capisce del perché Trump non abbia sbagliato a rivolgersi in un certo modo ad una parte degli elettori. La “ripresa” americana di questi ultimi anni, infatti, garantisce allo stato attuale delle cose ritmi assai più tenui di quelli sostenuti durante il decennio trascorso, anche in presenza del trauma dell’11 settembre del 2001 e dei contraccolpi che da ciò erano derivati, come un colpo di frustra, sulla produzione, la distribuzione, gli scambi e il consumo. Ancora più significativo è il fatto che la crescita di posizioni-ruolo nel tessuto economico sia avvenuta prevalentemente negli ambiti a bassi skills, ossia con qualifiche minori e, quindi, sia con un trattamento salariale e un livello di tutela normativa molto contenuti sia con aspettative di stabilizzazione e, in conseguenza, di incremento professionale, scarse se non nulle. Un fenomeno per nulla sorprendente, che si ricollega semmai alla più generale crisi del ceto medio che sta interessando l’intero Occidente post-industriale. La quale riconfigura funzioni, ruoli, equilibri ma anche identità e prospettive di ampi segmenti di quella popolazione che, ancora non troppo tempo fa, si considerava invece al riparo dalle incertezze che si sono poi prepotentemente riproposte. Che i percorsi della globalizzazione in atto si siano tradotti in una polarizzazione non solo dei redditi ma anche delle funzioni e del posizionamento sociali che ad essi si accompagnano, è oramai fatto certo. In altre parole, si vanno rarefacendo le posizioni intermedie e mediane nella filiera lavorativa. Se ne avvantaggiano soprattutto i pochi lavoratori che, a diverso titolo, sono invece parte di una fascia alta, composta perlopiù da “creativi”, dotati di un ampio set di relazioni profittevoli e di legami premianti, quindi titolari di condizioni esclusive o comunque di oggettivo privilegio, a partire dalle quali possono contrattare da posizioni di forza i modi (e le retribuzioni) con i quali offrire la loro prestazione. Il resto, invece, si scopre maggiormente debole poiché in misura crescente esposto a situazioni di perdurante instabilità, di costante mobilità (rivolta tendenzialmente verso il basso), di lievitante precarizzazione fino al demansionamento, ovvero alla retrocessione nella scala delle funzioni, dei riconoscimenti di ruolo, dello status e delle garanzie economiche già maturati. Non di meno, una parte sempre più rilevante di quel ceto medio che è nell’occhio del ciclone scopre di non avere capacità di contrattazione. Ossia, in una società dove predomina il settore dei “servizi”, un terziario non necessariamente avanzato (ma quand’anche lo sia l’elevata informatizzazione non solo taglia posti di lavoro ma dequalifica una parte delle prestazioni residue, rendendole accessorie al macchinario) si accorge di essere facilmente sostituibile. Anche perché non ha strumenti per costruire coalizioni sociali capaci di imporre la propria volontà, affermando gli interessi di cui è portatore. Nelle statistiche americane i possessori di un reddito medio oscillante tra i trentamila e i centomila dollari (fatte le proporzioni di valore tra i diversi periodi presi in considerazione) sono passati, in cinquant’anni, dal costituire più del 50% della popolazione lavorativa totale all’attuale 43%. L’aumento della quota di Pil procapite nella formazione del proprio reddito riguarda solo alcune classi reddituali superiori, mentre per una cospicua componente restante la tendenza è esattamente opposta. Così come la parte di lavoro richiesta nella formazione della ricchezza nazionale in quindici anni è scesa di quattro punti, passando dal 64,6% al 60,4%. Anche qui, per intendersi, l’indirizzo di fondo segnala che a generare risorse e a favorirne la loro redistribuzione sono sempre più spesso processi di natura finanziaria o comunque non direttamente riconducibili alla messa in valore delle prestazioni lavorative. In quest’ultimo caso, lo scambio tra quantità di lavoro richiesta di contro alla remunerazione offerta si è fatto, a sua volta, maggiormente diseguale: più prestazione (per intensità, qualità, durata) a fronte di una minore contropartita in termini di salario e di diritti accessori, a partire dalle coperture assicurative e previdenziali. Un elemento che si riconnette a questo quadro è il decremento della partecipazione al mercato del lavoro in età adulta (tra i 25 e i 60 anni di età), laddove se all’inizio degli anni Cinquanta solo il 3% dei maschi di quella fascia si asteneva dal non prestare una attività continuativa ora, invece, la percentuale è quadruplicata. Fuori dal circuito del lavoro, in buona sostanza. E non tutto può essere letto con una maggiore presenza nel sistema scolastico e, quindi, un rinvio dei tempi di accesso in quello produttivo. Rimane poi il fatto che in quarant’anni, dall’inizio della presidenza Reagan alla conclusione di quella di Obama, quel famoso 1% della popolazione che raccoglie la parte più ricca della variegata società americana ha incrementato la parte di risorse a sua disposizione (derivate dal reddito lavorativo ma anche e soprattutto dalla rendita) dal 10 al 18% della quota globale. Donald Trump, che non è propriamente un esponente della parte maggiormente “affaticata” della società, ha tuttavia capito che una chiave di volta nella contesa elettorale era (e rimane) il declino del ruolo del ceto medio, tra timori nel presente e sfiducie assortite per ciò che il tempo a venire potrebbe riservare. La sua partita contro l’establishment democratico, quest’ultimo invece completamente identificato con una certa immagine della società americana, quella proiettata verso il futuro, che riguarda certuni ma rischia di escludere tanti altri, ha quindi colpito nel segno. Non importa quanto di sincero (così come di accettabile o di rifiutabile nei toni e nei modi) sussista nell’auto-narrazione che il presidente eletto ha offerto di sé durante i lunghi mesi della campagna elettorale. Conta semmai il cortocircuito che ha innescato nel fronte avversario. Rivelando che quest’ultimo riesce ad intercettare molto poco dei malumori che, invece, attraversano una parte dell’elettorato statunitense. Per più aspetti, parrebbe non volersene neanche fare carico, avendo perduto la volontà, prima ancora che la capacità, di tradurli in elementi della sua offerta politica. Il divorzio tra una parte considerevole della pallida sinistra liberale, non solo quella americana, e un tessuto sociale sempre più sofferente, frammentato, completamente estraneo alle rappresentazioni che la prima dà delle dinamiche collettive, è quindi in atto. La prassi di enfatizzazione dei diritti alla differenza trova qui un suo limite oggettivo se, ad essa, non si accompagna la capacità di tradurla in diritto all’integrazione sociale per tutti, attraverso politiche redistributive. Le quali, per inciso, non rimandano alle peculiarità identitarie e di gruppo come ad un valore in sé, men che meno se esso dovesse invece venire inteso come premiante sul piano dell’accesso selettivo alle risorse pubbliche. Piuttosto rinviano alla necessità di dare nuovo sostegno a intere collettività in evidente difficoltà, dove ciò che distingue non è una qualche appartenenza culturale stretta bensì la condivisione di un comune senso di afflizione e declassamento. È ciò che il «politicamente corretto», al di là della manipolazioni che di esso si fanno, anche e soprattutto nel linguaggio di senso comune, non riesce e restituire, rischiando semmai di mettere in tensione e conflitto l’accesso ai diritti civili (visti come un optional per gruppi di persone già integrate) con la negazione o la contrazione dei diritti sociali (in contrazione poiché è il sistema stesso delle garanzie previste dal Welfare State ad essere in via di ristrutturazione e di ridimensionamento). Altrimenti, in assenza di un ripensamento al riguardo, il rischio è che l’immagine che Trump ha ritagliato su misura ai suoi avversari diventi il lenzuolo funebre dentro il quale rischiano di rimanere avvolti per il tempo a venire. Non per virtù del nuovo presidente ma per inettitudine delle leadership tradizionali. In campo democratico ma anche sul versante repubblicano. Negli Stati Uniti come, in immediato riflesso, anche in Europa.
Claudio Vercelli