Immagini e ferite
Le immagini possiedono una forza spaventosa. Semmai, nell’epoca digitale, corrono il rischio di inflazionarsi rapidamente, di essere presto dimenticate nel fluire continuo sui nostri monitor ogni giorno. Anche le parole, però, hanno una potenza impressionante. Si può discutere se davvero siano equiparabili alle pietre, ma possono rovinare delle esistenze, creare senso comune, indurre menti più deboli a compiere atti sconsiderati.
I nuovi mezzi di comunicazione, da questo punto di vista, sono una sciagura. Qualunque diaframma e ogni controllo su quanto viene scritto sembra saltato.
Prendiamo le immagini, tremende, dei profughi in fila in mezzo alla neve in un centro per migranti alle porte di Belgrado. Sono della settimana scorsa, e ci interrogano profondamente come esseri umani e come cittadini europei. Altrettanto farebbero – ma queste foto non le vediamo e non vogliamo vederle – le immagini dei centri per migranti in Italia, gli insediamenti spontanei nei palazzi abbandonati, le abitazioni fatiscenti dove i caporali mettono i migranti che sfruttano nei campi.
Di fronte alla forza di quelle fotografie, molti sui social media hanno reagito affermando “Come nel 1943”. Sul piano visivo l’analogia effettivamente si presta. Ma le parole, appunto, sono importanti. C’è davvero bisogno di paragonare quell’immagine terribile ai lager nazisti? Per denunciare le condizioni inaccettabili in cui la nostra indifferenza colloca quegli esseri umani c’è bisogno di far riferimento allo sterminio degli ebrei nella Shoah? Non è possibile modulare le nostre parole e, in ultima analisi, raffinare il nostro pensiero?
A ben vedere, questo eccesso linguistico fa pendent con il suo opposto politico-concettuale, con quell’“invasione di clandestini” di cui a sproposito parlano i razzisti buontemponi in tutte le trasmissioni politiche nazionali e locali. Se parliamo di Shoah, autorizziamo costoro a parlare di invasioni. In assenza, evidentemente e fortunatamente, dell’una e dell’altra.
Rimboccandoci le maniche, la sfida epocale dell’immigrazione può invece essere affrontata e risolta. Ma occorre anche usare le parole giuste.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas Twitter: @tobiazevi
(17 gennaio 2017)