La violenza come abito
Il terrorismo parrebbe costituire un fenomeno destinato ad essere perennemente uguale a se stesso. In realtà, se le sue abominevoli modalità di manifestazione non mutano, trattandosi di azioni particolarmente violente contro indifesi ed innocenti, (intenzionate quindi a causare danni irreparabili per le vittime e ad accrescere lo stato di ansia, se non di paura, tra la collettività colpita), non si può dire che nella sua interna composizione, caratterizzata da una multiformità di agenti, protagonisti e motivazioni, rimanga la medesima cosa, ossia corrispondente a quanto già è stato. Nel caso del terrorismo di radice islamista, poi, registriamo un progressivo mutamento. La svolta è maturata nel corso del tempo. La madre di tutte le più recenti derive, se così vogliamo definirla, è senz’altro la guerra in Afghanistan, quella avviatasi con l’invasione sovietica del 1979, alla quale seguì la guerra dei mujaheddin, coeva alla vittoria khomeinista in Iran. Da quel momento il conflitto infra-islamico non solo conobbe un’accentuazione bellicosa, militante e militarizzata, ma si coniugò al rifiuto integrale dell’«Occidente», quest’ultimo destinato da subito, in quanto icona negativa, a divenire cavallo di Troia per le rivendicazioni delle varie organizzazioni criminali. Detto in altre parole: i gruppi del terrorismo che affermano di richiamarsi alla religione musulmana, facendosi scudo di essa, hanno mantenuto come target privilegiato i propri correligionari, dedicandosi prevalentemente alla destabilizzazione dei paesi dove la maggioranza, o la quasi esclusività, della popolazione si rifà al Corano. Ma hanno operato anche un forte investimento ideologico contro ciò che chiamano, per l’appunto, «Occidente», identificato e additato come la sentina di tutte le nequizie. È il nuovo orizzonte «anti-imperialista», una serie di simbolismi mobilitanti di cui il jihadismo si è appropriato con scaltrezza, a fronte del declino di altri soggetti politici. Si tratta di una svolta culturale, ideologica e, quindi, politica che è andata maturando o consolidandosi negli ultimi quarant’anni. La fonte di questo mutamento la si può agevolmente identificare nel lascito dell’insegnamento degli egiziani Sayyid Qutb e Hasan al-Banna, l’uno e l’altro strettamente organici alla Fratellanza musulmana, il più longevo movimento integralista. La salafiyya è la scuola di pensiero che comprende entrambi. In realtà, quest’ultima ha conosciuto notevoli mutamenti nel corso del tempo, trattandosi in un primo momento di una corrente culturale che si riprometteva di identificare le radici della modernità all’interno della civilizzazione islamica, per poi invece, a metà del secolo appena trascorso, assumere i connotati di un rigida dottrina prima conservatrice e poi reazionaria, in accordo con il wahhabismo, diffuso nella penisola arabica e puntello della casa regnante dei Saud. Oggi, il fenomeno del fondamentalismo islamista rimanda a quell’insieme di condotte militanti, ispirate all’attivismo politico e basate su di una lettura intransigente, se non fanatica, dei dettati coranici, che accompagnano svariati movimenti presenti nel Medio Oriente, nell’area mediterranea ma anche nel cosiddetto Islam della diaspora, ovvero quello presente nei paesi di immigrazione. In quest’ultimo habitat è cresciuta una nuova generazione di attivisti, a volte privi di diretti contatti con i paesi di origine dei loro famigliari, che manifestano una notevole confidenza con la violenza metropolitana. Non a caso sono questi i territori prediletti dai reclutatori, ovvero tra quanti offrono al disincanto, allo spaesamento, all’alienazione di una intera generazione di giovani musulmani, che si sentono ai margini delle società europee (quand’anche non lo siano nei fatti), un indirizzo pseudo-politico per il risentimento da esclusione. Non di meno, un altro spazio di sicuro successo è offerto dai penitenziari. In Francia, ad esempio, la questione è all’ordine del giorno: entrano criminali comuni, escono ideologizzati e fanatizzati. Furti, rapine, aggressioni e omicidi assumo così un significato nobilitante, diventando parte di un universo di falsi valori che coincide con la lotta per la conquista della «terra degli infedeli e della miscredenza». Plausibile che tutto ciò avvenga anche in altri paesi europei, tra cui la stessa Italia. Il nesso tra gangsterismo e jihadismo (laddove quest’ultimo termine rimanda alla concezione offensiva del Jihad, inteso come un precetto fondamentale, quello della guerra “santa” contro gli infedeli e gli apostati, ovunque, dovunque e chiunque essi siano) trova nell’antisemitismo il suo punto terminale, il momento per così dire più qualificante agli occhi di coloro che si riconoscono in queste prassi mortifere. Il succedersi di attentati contro obiettivi ebraici ne è un ovvio riscontro. L’antisemitismo jihadista non è tuttavia il medesimo di quello del passato. Fondamentale, nel caso suo, sono due elementi tra di loro intrecciati: la forsennata israelofobia, laddove lo Stato degli ebrei viene presentato come la prova definitiva del «complotto» realizzato da questi ultimi, i «parassiti», ai danni dei musulmani autentici, e il ricorso al Web, grande veicolo di amplificazione delle posizioni maggiormente radicali. Quest’ultimo è anche un’autentica piattaforma di reclutamento ideologico, non meno che una sorta di seconda linea, sulla quale assestare temporaneamente i combattenti e, nel medesimo tempo, preparare i neofiti alla lotta. Si tratta di un luogo virtuale, che costituisce una comunità di destino per quanti incontrano, nei tanti siti visitabili, parole, immagini e suggestioni alle quali richiamarsi per dare un qualche senso alla propria esistenza. La perifericità sociale e la marginalità culturale di una parte di questi militanti è importante, ancora una volta, per comprendere dove si allevino le covate dei nuovi terroristi. Ma non bastano in sé per procedere ad un’interpretazione della stratificazione sociale e politica del jihadismo, così come del network prima di al-Qaeda ora dell’Isis, come di ciò, ed è evidentemente molto, che gli ruota intorno. Poiché la stragrande maggioranza di coloro che tirano le file dei gruppi fondamentalisti non appartengono necessariamente alle classi sociali e ai ceti svantaggiati, provenendo semmai da buoni studi e da famiglie sufficientemente integrate nel loro ambiente. Anche da ciò deriva loro la capacità di orientare il discorso politico verso l’auto-promozione, senza che ciò sia inteso da quanti se ne pongono al servizio come uno sfruttamento della propria disponibilità e della “buona fede”. Questo doppio livello, che costituisce una costante nell’islamismo radicale, rinvia quindi alla capacità che le élite interne coltivano nel manipolare il discorso ideologico sulla mobilitazione, sul sacrificio e sul martirio, facendo sì che diventi l’intelaiatura di una promessa di redenzione in terra. L’anello di saldatura tra il patrocinio dei propri interessi e la finzione di una rappresentanza universale di quelli degli «oppressi della terra» rimane la definizione dell’esistenza di un nemico, tanto potente – e minaccioso – da risultare l’unico, vero ostacolo che si frappone tra l’esperienza di abiezione dettata dal presente e la realizzazione di una condizione paradisiaca che deriverà dalla rimozione degli ostacoli presenti su questo pianeta. Lo jihadismo ha un asso della manica, per così dire, essendo per sua natura il prodotto non tanto di un’elaborazione ideologica raffinata bensì dell’evoluzione della militanza islamista nel tempo e della sua capacità di adattarsi ad esso in maniera quasi camaleontica. Avendo abbandonato le vecchie forme di organizzazione, legate alle dinamiche degli Stati nazionali, oramai per buona parte prive di produttività politica, si è infatti proposto sulla scena internazionale dopo il 1989 come un attore totale, in sintonia con i processi di globalizzazione. Di essi, per alcuni aspetti, ne è anche una sorta di marcescente prodotto. La sua forza sta sia nell’appello ad un’appartenenza transnazionale, che gli deriva per l’appunto dal lottare anche contro l’ebraismo, laddove esso è inteso come un aggressore proteiforme e tentacolare che non ha confini né limiti, sia dall’estrema multiformità organizzativa. Di stagione politica in stagione politica, il jihadismo identifica le aree di crisi sulle quali dirottare energie e risorse. Oggi sono la regione siriaco-irachena e la Nigeria, così come per estensione l’area sub-sahariana e del Sahel; ieri erano l’Afghanistan e l’Iraq, ma prima ancora la Bosnia e così via. Non essendo un soggetto unitario ma un insieme di attori politici e militarizzati, tra di loro anche in forte competizione, si presenta quindi come una galassia tanto frantumata quanto in perenne movimento. Fatto che gli permette di compensare le eventuali sconfitte temporanee. Dopo di che è assai probabile che, del pari ad altre forme di terrorismo trascorse, i suoi effetti di lungo periodo, più che risultare “rivoluzionari”, andranno a consolidare quei poteri diseguali, di cui dice – invece – di volere sovvertire e distruggere la presenza. E dei quali, invece, non infrequentemente, ne è una inquietante e sottaciuta manifestazione. A guardare in casa saudita ed iraniana, ad esempio, certe cose si capiscono meglio. Non si tratta di regie, bensì di copioni. La falsa coscienza genera mostri. E i burattini spesso si muovono ritmicamente anche in assenza di grandi burattinai.
Claudio Vercelli
(22 gennaio 2017)