“Ad Auschwitz non c’è una fine”
Il primo pensiero, al giungere di Piotr M.A. Cywinski, nato nel ‘72 a Varsavia, laureato in Storia a Strasburgo e da dieci anni direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, è che davvero sia necessario avere le spalle larghe per reggere a una simile enorme responsabilità. Barba rossa, lungo cappotto nero che rende ancora più imponente il suo aspetto, questo gigante gentile indossa vestiti comodi, poco formali, e porta ai piedi enormi scarpe da montagna. È un uomo pacato, dall’eloquio lento, che prima di rispondere si prende tutto il tempo necessario. Silenzi anche lunghi, con lo sguardo rivolto a terra, a cercare le parole per risposte mai banali né scontate. Piotr Cywinski si stava riprendendo da una brutta influenza, ma la decisione di venire lo stesso a Milano l’ha presa anche perché “oltre al piacere di presentare il mio libro con persone così interessanti volevo vedere il Binario 21, un luogo di cui avevo sino ad ora solo sentito parlare”. E il luogo, in effetti, colpisce anche il “direttore di Auschwitz”, così come tutti coloro che visitano il Memoriale della Shoah di Milano, dove a turbare ancora di più arriva regolare il rumore dei treni che arrivano e soprattutto che partono dalla Stazione Centrale.
Memoria: a gennaio molto se ne parla, e nonostante ciò troppo spesso viene scritta con la M maiuscola per essere contemporaneamente svilita e svalutata. Si sente la necessità di mettere dei punti fermi. Su cosa possiamo contare, davvero? Cosa manca?
Abbiamo certamente due cose: i racconti dei testimoni, e l’autenticità del Luogo, una parola per la quale ho scelto l’iniziale maiuscola. Dobbiamo tenere lo sguardo verso il passato, per non dimenticare quello che è stato, e contemporaneamente proiettarci con un ribaltamento verso il futuro. La memoria non ha senso se non muove, se non commuove, se – soprattutto – non rende più responsabili.
All’avvicinarsi del Giorno della Memoria viene fatto un grande lavoro in ambito scolastico. Lei ha fatto parte del Consiglio del Centro internazionale per l’Educazione su Auschwitz e l’Olocausto. Cosa ne pensa?
La difficoltà maggiore per i sistemi scolastici è avere presente in ogni momento che la memoria, l’educazione alla memoria può funzionare solamente in un quadro storico, non è legata solo all’educazione civica, o a un sistema filosofico. Deve permettere di arrivare a cogliere con chiarezza il raporto fra la Shoah e l’oggi. E il pericolo che non si riesca a trasmetterne il senso ci sarà sempre. La memoria non è un miracolo.
Inoltre va ricordato che sono ormai pochi coloro che possono raccontare Auschwitz, e in un tempo non lontano non ci saranno più neppure loro. Cambierà tutto?
No, questo non lo credo. E non lo dico per sminuire il loro ruolo, anzi. I testimoni hanno fatto tutto quello che era umanamente possibile. Hanno raccontato, scritto, ripetuto la loro storia così tante volte e in così tante maniere che la loro scomparsa definitiva sarà certamente un momento di passaggio, ma non sarà un rischio per la memoria della Shoah. Abbiamo libri, filmati, trascrizioni, documentazione di ogni genere. Non c’è nessuna possibilità di ignorare quello che è stato. Né di dimenticarlo.
Lavorare ad Auschwitz significa anche – lo racconta in Non c’è una fine – compiere ogni giorno le scelte che altrove potrebbero essere normale amministrazione, ma che per lei certo non sono mai banali.
C’è una tensione costante fra quello che io credo in tutta onestà sia meglio fare e il senso enorme di responsabilità per decisioni che non posso prendere da solo. Ma alla fine la responsabilità è mia.
Non c’è una fine non è la sua prima pubblicazione.
No, ma con questo libro – che è il primo tradotto in italiano – ho cercato di fare una cosa diversa, ossia di raccontare come vive e che problemi si pone una persona come me che ogni mattino si alza e, per lavoro, va ad Auschwitz. E si occupa anche di molte cose cui normalmente non si pensa.
Parla della quotidianità?
Esattamente. La vita quotidiana ad Auschwitz è molto particolare. È un Luogo che ho visto in tutti i suoi aspetti, di giorno e di notte, col sole e con la pioggia, col caldo e nel gelo. Ho passato molte ore camminando per il campo.
Non è difficile? Sì. Lo è.
È diventato meno difficile? No. Pensavo, in effetti, forse anche speravo che si arrivasse a trovare una qualche forma di quotidianità. Che col tempo diventasse più facile. Credevo si potesse arrivare a una normalità. Ad Auschwitz invece non esiste. E credo non possa esistere.
Ci sono anche altri che vi lavorano.
Ogni giorno.
Appunto. E ci sono guide – sono al momento 286, lavorano in circa 20 lingue diverse – che dopo magari quindici anni di lavoro quotidiano, dopo migliaia di visite, improvvisamente crollano. Così. Senza un motivo apparente.
Questo libro quindi vuole essere un messaggio anche per loro?
Non so se voglio dare un messaggio. Si tratta semplicemente di una testimonianza. È il mio modo di rispondere alle tantissime domanche che mi vengono rivolte in continuazione, ogni giorno. Che genere di domande? È impossibile raccontarle tutte: si va dal semplice ma impossibile “Come fai?” all’altrettanto impensabile “Cosa farai dopo?”. C’è chi mi chiede perché conserviamo le strutture del campo, e chi vuole sapere perché non le restauriamo completamente. Altri mi chiedono se la mia è una vocazione.
È una vocazione?
Non saprei come definirla. Forse missione. Forse. È difficile trattare come vocazione qualcosa che sommerge, una cosa su cui non si può essere all’altezza.
In italiano il suo libro si intitola Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz. Il titolo originale era Epitafium.
Sì, è anche il titolo dell’ultimo capitolo, in cui racconto che in una discussione sull’ipotesi di modificare l’esposizione principale la studiosa della Shoah Havi Dreyfuss chiese solo: “Cosa ci sarà alla fine dell’esposizione? Come sarà la fine?”.
Rispondo che non c’è una fine. Non può essercene una. Sarebbe una soluzione troppo semplice.
Inoltre non saprei dove una fine potrebbe essere collocata.
Non c’è una fine.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
da Pagine Ebraiche, febbraio 2017
(26 gennaio 2017)
L’illustrazione è di Giorgio Albertini