Lavoro e dignità
“Gli ispettori e i sorveglianti dissero al popolo: ‘Così comanda il Faraone: Io non vi do più paglia. Voi stessi ve la procurerete dove potrete trovarla, perché nulla è diminuito del quantitativo che voi dovrete produrre’”. Anche se le condizioni sono fortunatamente molto meno gravose di quelle narrate dalla parashà di Shemot che abbiamo letto sabato scorso, questa del lavoro raddoppiato a parità di condizioni (e di stipendio) è una sensazione che noi insegnanti abbiamo provato più volte negli ultimi anni: una corsa stressante in cui continuamente si è chiamati a fare qualcosa di più e continuamente si è accusati di non fare abbastanza. Ci sono insufficienze? È nostro dovere organizzare il recupero. Ci sono allievi con disturbi specifici dell’apprendimento? Bisogna preparare attività e verifiche differenziate. Ci sono i test Invalsi? Gli insegnanti devono trascorrere ore ed ore a trascrivere al computer le risposte degli allievi. Senza contare le classi più numerose, le ore di cattedra in più, che significano materie in più (e quindi più riunioni in più dipartimenti), classi in più (più sezioni, più allievi, più genitori, più ore di ricevimento, ecc.). Tutto questo nell’indifferenza generale, anzi, sotto una martellante campagna contro gli insegnanti nullafacenti. Gli ultimi governi hanno forse mostrato un atteggiamento meno pregiudizialmente ostile, ma nella sostanza non hanno diminuito in alcun modo il carico di nuove e inedite incombenze spuntate come funghi negli ultimi anni. In compenso hanno dotato le scuole di un organico di potenziamento, insegnanti in più a sostegno dell’attività didattica, che però, data la generale rigidità del sistema, non sempre possono essere utilizzati adeguatamente.
Dunque, insegnanti pagati e non utilizzati si trovano nelle stesse scuola al fianco di quelli utilizzati per molte incombenze per cui in sostanza non sono pagati. Un paradosso che inevitabilmente produce malumori da entrambe le parti. Come avrebbero reagito i nostri padri in Egitto se, mentre erano costretti a procurarsi la paglia per i mattoni, si fossero trovati al fianco di altri schiavi obbligati (non per loro scelta, beninteso) a non lavorare per nulla? È quello che mi sono domandata ieri leggendo l’articolo (che tra l’altro parlava proprio della mia scuola) comparso sulla prima pagina di Repubblica. L’articolo, però, si guardava bene dal denunciare il paradosso nel suo insieme, ma si concentrava esclusivamente sul caso dell’insegnante pagato per non lavorare, alimentando così ulteriormente il mito degli insegnanti nullafacenti. I carichi di lavoro non pagato, invece, non scandalizzano nessuno, nemmeno un quotidiano di tendenza progressista. Si chiamano disponibilità, dedizione, senso di responsabilità, e a quanto pare l’idea che un’incombenza supplementare possa essere retribuita suona datata e retrograda. Del resto questo non riguarda certo solo il mondo della scuola, anzi, credo che in altri settori lavorativi sia ben peggio. La dignità del lavoro, a mio parere, si fonda anche su un giusto compenso. Forse il racconto di Shemot è più attuale di quanto pensiamo.
Anna Segre, insegnante
(27 gennaio 2017)