L’yiddish torna a fare spettacolo
Occhi aperti sul mondo hassidico
Temuto, venerato, oggetto di sospetto o di ammirazione, affascinante o respingente che lo si voglia immaginare, il mondo dell’ebraismo rigorosamente ortodosso, in particolare nelle sue declinazioni hassidiche, non aveva da attendere la Berlinale 2017 per fare il suo debutto sul grande schermo. Tentativi più o meno riusciti di raccontarlo al grande pubblico, valga per tutti la citazione del celebre “Un’estranea fra noi”, ce ne sono stati. Eppure, nonostante il rigore delle sceneggiature e la professionalità degli attori impegnati sul set, qualcosa continuava a suonare falso, artificioso.
È proprio su questo fronte, per cercare di restituire una visione sincera a questo universo così difficile da percepire serenamente dall’esterno e così difficile da conoscere nella sua autentica realtà, che il regista newyorkese Joshua Weinstein ha voluto provare a fare un film autentico e non divistico ambientato negli ambienti hassidici del Borough Park di Brooklyn.
Il risultato, questo “Menashe” presentato in anteprima al festival cinematografico di Berlino nelle scorse ore, è la storia di una riuscita. Un successo per il valore cinematografico e artistico del film, che scorre sotto gli occhi dello spettatore raccontando in maniera semplice le sfumature delle vita quotidiana di ambienti ebraici solitamente molto restii a favorire le intrusioni. E un successo nela suo aspetto di sperimentalità sociale, là dove un ebreo contemporaneo di origini hassidiche ma ora non più ortodosso, è riuscito non solo a vedere dal di dentro, ma a sollecitare lo stesso mondo dei hassidim a interpretare se stesso.
Tutto dialogato in un yiddish splendido nella naturalezza della sua quotidianità, tutto interpretato da persone vere e davvero appartenenti al mondo che raccontano, a cominciare dal suo protagonista, Menashe Lustig, un hassid che non il né timore né imbarazzo nel confrontarsi con la cinepresa; il film è un piccolo capolavoro di arte e di umanità.
La semplice storia di un padre rimasto vedovo precocemente, con un figlio di dieci anni da crescere in mezzo a mille difficoltà, le dinamiche sociali tutte particolari che caratterizzano il suo mondo, in pratica la fatica di vivere la vita quotidiana. Il rapporto delicato e impossibile fra un padre e un figlio raccontato senza pudori e senza falsificazioni. Tutto sembra speciale ed esotico se passa attraverso la vita di un ebraismo profondamente autentico e coinvolgente. Per poi alla fine comprendere che quello che sembra profondamente diverso, così lontano da essere quasi irraggiungibile, non è altro in realtà che un’altra possibile declinazione della nostra abituale quotidianità.
Vedere il mondo, il nostro e quello degli altri, con occhi nuovi, passare dallo sguardo esterno allo sguardo interno, senza pudori e senza timori. Trovarsi infine accomunati da un senso di umanità che ci rende tutti diversi e tutti molto simili di fronte ai grandi problemi della vita. Weinstein ci riesce chiamando in scena un’intera compagnia di dilettanti dello spettacolo (molti dei partecipanti che si sono lasciati coinvolgere nella lavorazione del film non sono mai entrati in una sala cinematografica in tutta la loro vita), apparenti ingenui disarmati nei confronti delle insidie della vita quotidiana contemporanea, che attingendo alla forza di una Tradizione eterna, quella che tutti noi abbiamo ricevuto in eredità, si rivelano in realtà più forti, più adeguati, più riusciti e più felici di quanto noi siamo spesso capaci di immaginarli.
gv
(12 febbraio 2017)