Periscopio – Il nome dell’antisemitismo

lucreziNon può non essere salutata con soddisfazione la notizia – già riportata e commentata, su questo notiziario, lo scorso 9 febbraio – che la Commissione Europea ha deciso di inserire nel proprio sito ufficiale la definizione operativa di antisemitismo adottata, nel maggio 2016, a Bucarest, dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) (la rete intergovernativa che comprende 31 Paesi, di cui 24 membri dell’Unione Europea, e che si riunisce due volte all’anno in una settimana di riunione plenaria, votando una serie di mozioni, che vengono approvate – come in questo caso – solo all’unanimità). E se, come si spera, la Commissione Europea dovesse anche ufficialmente adottare questa definizione, ciò rappresenterebbe un segnale ancora più concreto di impegno nella lotta all’odioso fenomeno.
Certo, la definizione di antisemitismo, per come è stata formulata, appare alquanto scialba e banale, e, nel leggerla, si ha l’impressione che il fenomeno a cui essa si riferisce non sia poi una cosa così preoccupante:
“L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni retoriche e fisiche dell’antisemitismo sono dirette a individui ebrei e non ebrei o ai loro beni, a istituzioni comunitarie ebraiche e ad altri edifici a uso religioso.”
Ma il testo dell’IHRA contiene, oltre alla mera definizione – tutto sommato, alquanto inutile – anche alcune importanti precisazioni, alcune delle quali appaiono invece molto importanti, laddove si chiarisce che l’antisemitismo può comprendere gli attacchi sistematici allo “stato d’Israele, concepito come una collettività ebraica”, e si forniscono diversi specifici esempi di come tali accuse possano rappresentare, al di là di ogni legittima critica politica, delle forme di antisemitismo (perché nel documento si puntualizza che, ovviamente, “le critiche rivolte a Israele che sono simili a quelle mosse a qualsiasi altro Paese non possono essere considerate antisemite”).

Sono segni di antisemitismo, segnatamente:

“Accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele in quanto stato, di inventare o esagerare l’Olocausto”;
“Accusare cittadini ebrei di essere più leali a Israele, o a supposte priorità degli ebrei in tutto il mondo, che agli interessi della loro nazione”;
“Negare al popolo ebraico il proprio diritto all’autodeterminazione, cioè sostenere che l’esistenza dello Stato d’Israele è un atto di razzismo”;
“Adottare due misure diverse (a Israele) aspettandosi da esso un comportamento non atteso o richiesto a nessun’altra nazione”;
“Usare i simboli e le immagini associate all’antisemitismo classico (per esempio accuse di ebrei che uccidono Gesù o l’accusa del sangue) per caratterizzare Israele e gli israeliani”;
“Tracciare paragoni tra la presente politica d’Israele e quelle dei nazisti”;
“Ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello stato d’Israele”;
“Accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele in quanto stato, di inventare o esagerare l’Olocausto”.

Tutti questi esempi portati appaiono decisamente utili, appropriati, pertinenti. Diciamo anche che sarebbero tutte delle ovvietà, se non vivessimo in un mondo nel quale, per esempio, dei giudici di un tribunale tedesco possono tranquillamente sentenziare che incendiare delle sinagoghe non è antisemitismo, ma semplice critica alla politica di Israele. Particolarmente opportuno, a mio avviso, il riferimento al trattamento particolare sempre riservato allo Stato ebraico, pretendendo da esso uno standard di comportamento, politico e morale, “non atteso o richiesto a nessun’altra nazione”. Parole ferme e sacrosante, che fa una certa impressione vedere accolte, in qualche modo, dalle istituzioni europee, che all’uso di tale “trattamento speciale” si sono applicate, tanto spesso, con autentica passione, arrivando a contendere alle Nazioni Unite il primato nel triste sport. Ma non vogliamo essere sempre pessimisti, non sottovalutiamo il significato di questo piccolo, grande passo, e restiamo in attesa, con cauta fiducia, di ulteriori segnali nella direzione di un impegno che non può non essere continuo, concreto, a ogni livello educativo, culturale, politico. E siccome, secondo me, del “trattamento speciale” fa parte anche il semplice parlare di Israele, la cui morbosa sovraesposizione mediatica è anch’essa un sottoprodotto dell’antisemitismo, ci permetteremmo di consigliare all’Europa di occuparsi di Israele, d’ora innanzi, con maggiore moderazione. Parlandone, se possibile, con più obiettività, con più rispetto, con più equilibrio. Ma anche, più semplicemente, parlandone un po’ di meno.

Francesco Lucrezi, storico

(15 febbraio 2017)