Setirot – Né ridere né piangere
Molto si ragiona – e si continuerà purtroppo a ragionare a lungo – sulla natura nichilista e la dimensione suicida dei terroristi islamici soprattutto di quelli “europei” (non dei mandanti, sia chiaro, degli esecutori). Insomma sulle differenti analisi che vedono da una parte una radicalizzazione dellʼislam e dallʼaltra una islamizzazione del radicalismo. Non a caso la serata di qualche giorno fa al Teatro Parenti organizzata da Gariwo (“La battaglia culturale contro il terrorismo”, con interventi particolarmente intensi, tra gli altri, di Olivier Roy e Hamadi ben Abdesslem) ha suscitato un discreto confronto. Dibattito al quale vorrei proporre non soltanto la definizione lacaniana dellʼautosacrificio come espressione del “narcisismo supremo della Causa persa”, ma anche un ragionamento letto in una recensione della rivista “Oasis” a un saggio dello psicoanalista Fethi Benslama che si intitola “Un furieux désir de sacrifice”. Dove al quesito sul perché la via sacrificale tenti oggi in modo particolare la gioventù musulmana Fethi Benslama chiama in causa lʼislamismo come utopia antipolitica, ovvero come assorbimento del religioso nel politico più che semplice politicizzazione del religioso.
Capisco che per alcuni tutto ciò sia semplicemente perdita di tempo, però io credo che i fenomeni vadano, per quel che è possibile, sviscerati prima che etichettati. In questo ricordando il buon vecchio Baruch Spinoza e il suo «né ridere né piangere, ma capire». O almeno cercare di capire.
Stefano Jesurum, giornalista
(23 febbraio 2017)