melamed – “Arabo, yiddish, russo: le lingue sono un patrimonio d’Israele”

Tzvia Walden - Foto di Tomer Appelbaum

La sua battaglia è da sempre quella per la lingua: per l’ebraico ma anche per l’arabo, il francese, l’yiddish, il russo. Ogni lingua ha la sua dignità da preservare, anche se, spiega Zvia Walden Peres con il sorriso che la contraddistingue, “non esiste al mondo una storia simile a quella dell’ebraico: per dirla in termini moderni, è stata la prima start-up nella nazione delle start-up ma da cui non abbiamo mai fatto la famosa exit (). È una lingua in divenire con solide radici nel passato: mi trovi un popolo che può leggere un testo di mille anni fa oggi e capirlo?”. La professoressa Walden parla piano, sceglie con cura le parole, perché è di queste che ha fatto la sua vita oltre ad essere attiva nella promozione dei diritti umani, della parità di genere, e della pace, seguendo l’insegnamento paterno. Zvia Walden Peres è infatti la primogenita di Shimon, l’uomo considerato uno dei simboli della speranza di pace tra israeliani e palestinesi. “A mio padre chiedevano spesso: ‘Qual è la cosa più importante che pensi di aver fatto nella tua vita?’ E lui rispondeva sempre: ‘Quella che farò domani’. Ed è un messaggio anche per noi, per continuare a lavorare per la pace”, aveva raccontato Zvia ritirando a Milano, a Palazzo Marino, il riconoscimento di uomo dell’anno tributato a suo padre dall’associazione Amici italiani del Museo d’Arte di Tel Aviv.
Di continuità e cambiamento parla la linguista israeliana, dottorata in psicolinguistica all’Università di Harvard nel 1981 e con un master in psicologia, sia quando fa riferimento alla lingua sia rispetto a Israele. Alla domanda se il nuovo modo di scrivere dei giovani israeliani (ma è un discorso che si può allargare oltre ai confini del Paese) attraverso i social network e la messaggistica su smartphone sia un passo indietro per l’alfabetizzazione, Walden ha una visione meno critica di quanto ci si potrebbe aspettare da chi ha dedicato la vita ad insegnare la bellezza e complessità della lingua: “è un dato di fatto, oggi i testi ci saltano addosso, sono disponibili semplicemente accedendo uno schermo – spiega – i ragazzi scrivono, usano immagini, raccontano. In un modo diverso. È un shinui, un cambiamento contro cui non dobbiamo remare contro ma capirlo”. Il punto fermo per la professoressa – docente alla Ben Gurion University del Negev – è quello di insegnare ai giovani ad apprezzare la letteratura sin da piccoli (e non i libri di testo). Per questo la si vede spesso in televisione mentre interagisce con i più piccoli, legge con loro e li rende partecipi. In uno dei filmati la si vede leggere una favola assieme a dei bambini che non solo interagiscono con lei ma si correggono a vicenda. L’approccio, sottolinea poi Walden parlando con le maestre, deve essere quello di coinvolgere i più piccoli, di responsabilizzarli e non trattarli dall’alto in basso. Una metodologia, spiega, che deve essere adottata anche con gli adulti: “quando di fronte abbiamo un adulto, immigrato magari dall’Ucraina, che parla male l’ebraico, la cosa più sbagliata che possiamo fare è parlargli come se fosse uno stupido, lentamente e ad alta voce. In questo modo non facciamo altro che frustarlo. Anche perché magari il Michael che abbiamo davanti a Kiev era laureato in biologia e ora si sta costruendo una nuova vita in Israele”. C’è quindi una responsabilità anche nei confronti dei nuovi migranti, che Israele – il paese per eccellenza dell’immigrazione – ha ben presente.
D’altra parte, una delle battaglie di Zvia è la conoscenza di più lingue. “In passato a lungo quello che non era ebraico è stato ostracizzato ma conoscere più lingue significa conoscere più mondi. Chi può essere contro al fatto di avere maggiore consapevolezza delle diverse sfaccettature della realtà?”. L’arabo, che Zvia parla così come il francese madrelingua, l’inglese e, in parte, il russo, è secondo lei uno strumento indispensabile per gli israeliani. “Gli arabi israeliani parlano entrambe le lingue mentre sono pochissimi gli ebrei a sapere l’arabo. Ma questo non fa creare muri. Se passo per strada e sento due persone parlare una lingua che non conosco, sono a disagio. Posso anche pensare che stiano parlando male di me e preoccuparmi”. La conoscenza di più lingue, spiega, serve quindi a una maggiore coesione e comprensione sociale. Non è una formula magica ma aiuta a superare le diffidenze. “Gli ebrei sono abituati a parlare da secoli, dalla Diaspora, più lingue. Dall’yiddish al latino, queste lingue sono il nostro patrimonio e dobbiamo proteggerle non cancellarle”.

Daniel Reichel

(10 marzo 2017)

Foto di Tomer Appelbaum