Cinque canti e un angelo
Pur nel suo tragico epilogo, la storia della scrittrice, poetessa e musicista ebrea morava Ilse Weber è tra le più emozionanti e avvincenti dell’immenso patrimonio biografico di uomini e donne che hanno creato musica in cattività durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nata l’11 gennaio 1903 a Witkowitz (oggi Vítkovice v Krkonoších, Repubblica Ceca), versata in numerosi strumenti musicali nonché autrice di canzoni, testi poetici e opere teatrali per l’infanzia, nel 1930 Ilse (il suo cognome da nubile era Herlinger) sposò Vilém Weber e si trasferì con lui a Praga.
Nel 1939, durante i giorni dell’invasione tedesca di Boemia e Moravia, i coniugi Weber misero in salvo il loro figlio maggiore Hanuš trasferendolo in Gran Bretagna.
Nel febbraio 1942 Ilse, suo marito e il figlio minore Tomáš (detto Tommy) furono deportati a Theresienstadt; ivi Ilse lavorò come infermiera addetta alla sorveglianza infantile, scrisse circa 60 testi poetici, alcuni dei quali messi in musica con accompagnamento musicale.
Ai primi di ottobre 1944 scelse di seguire suo marito ad Auschwitz–Birkenau con il figlio Tommy; il 6 ottobre Ilse e Tommy furono mandati a gasazione con altri ragazzi provenienti da Theresienstadt.
Prima del trasferimento ad Auschwitz–Birkenau Vilém nascose i componimenti poetici e musicali di sua moglie nel maneggio di Theresienstadt; sopravvissuto, dopo la liberazione tornò a Theresienstadt travestito da ufficiale dell’esercito cecoslovacco e recuperò il materiale di Ilse.
Vilém conservò il materiale di Ilse nella sua casa di Praga ma nel 1968, durante l’occupazione sovietica di Praga, un soldato dell’Armata Rossa gli confiscò gran parte del materiale; morì di infarto nel 1974 presso lo scalo aereo di Copenhagen mentre si recava da suo figlio Hanuš a Stoccolma.
Negli ultimi tempi Hanuš, ex giornalista della radio nazionale svedese e dal 1977 padre di un figlio chiamato Tommy (in memoria del suo fratellino scomparso a Birkenau) non ama particolarmente parlare di sua madre; ha le sue profonde, imperscrutabili ragioni e anche questo è amore filiale.
L’ultima volta che lo incontrai rimanemmo soli a pranzo e io esordii con una battuta: “Hanuš, quando c’era la Cecoslovacchia lo sai cosa dicevano del loro inno nazionale? l’inizio è l’inno dei boemi, il finale è l’inno degli slovacchi mentre l’inno moravo è la pausa tra i due”; Hanuš si sciolse e rise di gusto, io gli chiesi: “Sai che tua madre scrisse un’altra canzone a Theresienstadt oltre alle otto già pubblicate? Qualcuno la ricorda ancora in Israele”.
“Ne ho sentito parlare – rispose Hanuš – vorrei andare in Israele ma non me la sento di fare questo lungo viaggio” “Se vuoi, posso farlo io – gli risposi – salirò presto in Eretz per lavoro, cercherò questa persona e ti riporterò la canzone di tua madre”.
Detto fatto, qualche mese dopo presso Tel Aviv incontrai Aviva Baron (nata Kruper), dolce signora 85enne deportata con i suoi genitori a Theresienstadt quando era poco meno che decenne; Aviva ricorda il volto, le mani e la chitarra meravigliosamente suonata da Ilse, rammenta quando non fu scelta per cantare nell’operina Brundibár di Hans Krása (“il maestro del coro Rudolf Freudenfeld non mi ritenne capace ma io avevo una bella voce”) e di quando invece cantò nel coro dell’opera Bastien und Bastienne di Wolfgang Amadeus Mozart allestita a Theresienstadt (“alla fine dell’opera il cantante Karel Berman venne da me, mi accarezzò e mi disse che ero stata bravissima”).
Le chiedo della canzone di Ilse e allora Aviva canta una filastrocca in lingua ceca su un dottore che un giorno a Terezín visitò un bambino e alla fine gli disse con aria severa che era malato di…terezinite; Aviva ricorda altre tre canzoni inedite di Ilse, una di esse è in lingua tedesca e narra della Hamburger–Kaserne dove erano alloggiati numerosi ragazzi a Theresienstadt.
Il cervello di Aviva è una biblioteca e così tento un’ultima stoccata; Ilse creò un’altra canzone chiamata Schlaf mein angelein della quale non se ne ha più traccia, le chiedo se per caso la ricorda.
Aviva spalanca gli occhi: “Come fai a sapere di questa canzone? Sono 75 anni che nessuno mi chiede di Schlaf mein angelein” e rimane sola con i propri ricordi, lacrime scendono dai suoi occhi…
Si rischiara la voce e canta Schlaf mein angelein, la melodia è angelica di nome e di fatto; le parole non gli sgorgano naturali, perciò le chiedo di cantarmi la sola melodia e la canta per tre volte.
Questa è la storia di un figlio che cercava una canzone scritta da sua madre e invece ne trovò cinque; ed è la storia di una ragazza…di 85 anni che canta ancora come un angelo.
Esaurita la scia melodica di una canzone, quel che resta sono tessuti dell’anima lacerati e infine riparati, cuori riconciliati con la nostra storia più dolorosa, un senso di pace e liberazione.
Restano vite fatte di musica, quella più bella; la musica scritta nei Campi.
Francesco Lotoro
(15 marzo 2017)