melamed, lettera dei 600 – Scrivere ancora un tema?
Nell’ampia, e talora aspra, discussione sul degrado dell’italiano, generata dalla recente lettera-appello di 600 docenti e germinata in innumerevoli spin-off che ne hanno esplorato le diverse sottotrame politico-ideologiche (dalle responsabilità della scuola a quelle del web, passando per un classico assoluto del revisionismo culturale italiano, ovvero la demolizione postuma della figura di Don Milani), aleggiava nelle scorse settimane lo spettro della creatura polimorfa a cui da un secolo abbondante abbiamo affidato il compito di vigilare sulla buona lingua dei nostri studenti: il componimento d’italiano.
Il componimento d’italiano, meglio conosciuto come «tema», costituisce infatti la prova più largamente utilizzata per testare le competenze linguistiche degli scolari, nonché quella dai contorni didattici più labili: perché non valuta, appunto, soltanto la cosiddetta forma, ma anche l’aderenza alla traccia, le conoscenze disciplinari e interdisciplinari, il saper argomentare e creare collegamenti, l’attitudine all’analisi e alla sintesi, e più in generale la capacità di mettere in ordine fatti e pensieri per strutturare un discorso articolato e coerente su un certo argomento.
È insomma una sorta di test dei test, una macro-verifica che nei fatti supera la dicotomia spesso fuorviante forma/contenuto chiamando in causa abilità riflessive ed esecutive, cognitive e metacognitive, e sublimandole in un prodotto – il tema, appunto – che tacitamente si ritiene possa rivelare non solo come scriviamo, ma anche che tipo di persone – originali o banali, informate o ignoranti, duttili o rigide, razionali o istintive, intelligenti o stupide – siamo.
Qualche anno fa Luca Serianni e Giuseppe Benedetti pubblicarono un preziosissimo volume (Scritti sui banchi, Carocci editore) in cui vivisezionavano un corpus di oltre cento «pacchi» di temi assegnati agli alunni di 41 scuole superiori italiane (licei, istituti tecnici e professionali) dal Trentino alla Sicilia, analizzandone le tracce assegnate, le correzioni effettuate, le griglie di valutazione utilizzate e il modello di lingua a cui quelle correzioni e quelle griglie più o meno esplicitamente si ispiravano. Ne emergeva il quadro inevitabilmente mosso e cangiante di un paese in cui tutti fanno fare il tema in classe ma non esistono due insegnanti e due scuole che assegnino alla prova lo stesso significato, la stessa funzione, la stessa quidditas; soprattutto, non esistono due insegnanti e due scuole che adottino lo stesso metro di valutazione.
A grandi linee, si può dire che di solito nei tecnici e nei professionali ci si accontenta che i testi siano formalmente corretti, coerenti e comprensibili, mentre nei licei, con diverse gradazioni, si pretende qualcosa di più sul piano dei contenuti, del registro linguistico, dell’approfondimento e delle capacità di argomentazione; tuttavia bastano appunto un paio di occhi più indulgenti o più fiscali per cambiare prospettiva e spostare voti. Il che da un lato può risultare consolante, perché restituisce l’immagine di una scuola in cui non tutto è riducibile alla «livella» docimologica dei test Invalsi e in cui c’è ancora spazio per l’elemento umano, qualunque cosa ciò voglia dire, ma dall’altro allarga la zona d’arbitrio degli insegnanti più rigidi, mal s’adatta alla nuova realtà di una scuola italiana frequentata da un numero sempre crescente di stranieri, e soprattutto non consente di mettersi sufficientemente d’accordo su che cosa si debba intendere con le espressioni «scrivere bene» e «scrivere male» e su come occorra dunque affrontare un problema come quello evidenziato nella lettera dei 600.
Per alcuni insegnanti, difatti, scrivere bene consiste nel non commettere errori ortografici o morfo-sintattici, per altri nel sapersi elevare mezza spanna sopra il registro colloquiale evitando ripetizioni o parole «banali», per altri ancora nell’esprimere in modo chiaro e comprensibile ciò che si vuol dire (sempre che ciò che si vuol dire possa esistere senza le parole per dirlo), per qualcuno, infine, nel riprodurre quel tipico «stile da tema» fatto di incipit magniloquenti, calofemismi, frasi fatte, citazioni telefonate e retorica a gogò che si tramanda per imitazione di generazione in generazione senza che nessuno abbia mai sentito il bisogno di insegnarlo.
E del resto uno degli aspetti più interessanti della fenomenologia del tema in classe sta proprio in questo: che, a differenza di competenze «insegnabili» come il saper eseguire le quattro operazioni, formulare le frasi interrogative in inglese o svolgere l’analisi logica, quasi nessuno si prende la briga di spiegare come si fa o quantomeno di fornire un modello di lingua a cui ispirarsi. Come ricordano Serianni e Benedetti nel volume citato, «non accade quasi mai che un insegnante presenti ai suoi studenti “temi” scritti da lui o da altri adulti come esemplari per avviare o approfondire un’attività pratica di redazione di testi». E le cose non dovevano essere così diverse neppure in passato, se già un secolo fa Edmondo De Amicis, nei suoi Ricordi d’infanzia e di scuola, lamentava come i suoi professori si limitassero a correggere «gli errori grossi, suggerendoci la frase e la parola da sostituire al modo errato, e consigliandoci ogni tanto di leggere i buoni autori», aggiungendo che «questo era quanto facevano per insegnarci quella lingua […], un italiano misero, rachitico, senza forza e senza finezza, e senza alcuna distinzione fra il linguaggio accademico e il familiare».
Concetti non così diversi da quelli espressi poche settimane fa dai 600 firmatari della lettera, con la differenza che le accuse di De Amicis apparivano, nell’analisi, un filo più circostanziate e adottavano il punto di vista non del docente esasperato (e magari non sempre esente da colpe) bensì quello dello studente vittima di una pratica tanto corrente quanto poco motivata – e ancor meno motivante – dal punto di vista didattico, priva com’era (e com’è) di «corrispondenti nella realtà comunicativa extrascolastica», secondo le parole del semiologo Stefano Gensini.
Le cose in realtà sono in parte cambiate a partire dalla riforma del 1997 – ministero Berlinguer – che accanto alle tracce tradizionali (tema storico, letterario o di attualità) ha introdotto, tra le nuove tipologie di prove scritte per l’esame di stato, l’analisi del testo, il saggio breve e l’articolo di giornale, proprio allo scopo di provare a colmare questa distanza tra scuola e scrittura reale. Il problema è che il confine tra saggio breve e articolo di giornale rimane molto labile, nella pratica non meno che nelle tracce delle prove di maturità, dove i materiali a disposizione sono gli stessi per entrambe le tipologie e a cambiare è, in pratica, soltanto il modo in cui questi devono essere elaborati e presentati; come se fosse facile riuscire a ricavare un testo informativo-espositivo (così dovrebbe essere un articolo di giornale) a partire da testi di Kafka, Tozzi e Saba (maturità 2016) e come se bastasse apporgli un titolo ad effetto e ipotizzare la collocazione su un determinato giornale per farne, appunto, un articolo.
A leggere alcuni temi di maturità di oggi, così simili a quelli di ieri, si ricava l’impressione che la riforma non sia in realtà mai decollata e che sotto le nuove diciture e forme testuali giacciano camuffate le sembianze del vecchio componimento otto-novecentesco, non fosse altro che per il fatto che molti insegnanti – compreso, molto probabilmente, chi scrive – tendono a correggere le prove di oggi col gusto e la sensibilità di ieri, vittime di consuetudini didattiche calcificate nei secoli che nemmeno la riforma meglio intenzionata riesce a scalfire.
L’impressione è che non avesse torto Umberto Galimberti quando, nel 1997, nel commentare la riforma appena varata, sottolineava come «molto più utile del “tema in classe”, in cui lo studente mette per iscritto tutto quello che gli viene in mente, [sia] il “riassunto scritto” di una pagina in cinque righe o di dieci pagine in una pagina». Perché il riassunto, in fin dei conti, è il precipitato finale di una tecnica, mentre il tema viene trattato alla stregua di un’arte, che come tale non solo non si può insegnare, ma non si può neppure correggere. Lo sanno bene quegli insegnanti che di fronte a certi elaborati senza capo né coda, in cui le eventuali idee presenti si scompaginano in una prosa sfilacciata e nebulosa, non sanno da che parte cominciare a intervenire: dall’ortografia, che è più facile emendare, o dal lessico, agendo sulle singole parole per evitare di doverlo fare sulla scala più ampia del testo?
I più volenterosi, a volte, lo riscrivono addirittura da capo, perché in certi casi non c’è altra correzione possibile, ma forse sarebbe auspicabile piuttosto fornire allo studente gli strumenti necessari per l’autocorrezione. Il problema è: esistono quegli strumenti? E se esistono, si possono applicare quando la difficoltà dello studente, più ancora che nello scrivere decentemente, consiste nel formulare, raccogliere ed elaborare delle idee? Di sicuro, col vecchio e mai abbastanza apprezzato riassunto non sorgono di questi problemi: perché il riassunto, nel mettere in gioco competenze circoscritte e meno «creative», costituisce una prova di valutazione più affidabile del tema, soprattutto per quanto riguarda le abilità prettamente linguistiche e testuali, risparmiando inoltre agli alunni la frustrazione e la sofferenza di essere giudicati più per quello che si è che per quello che si è in grado di fare. Dopodiché, se il tema conserva comunque un valore indiscutibile, è quello di essere un esercizio difficile; un esercizio che ogni volta sollecita ad andare oltre i propri limiti, che non prevede una sola soluzione e che va svolto per forza in solitudine. Fosse anche soltanto per questa ragione, vale la pena continuare a proporlo.
Andrea De Benedetti per doppiozero
(24 marzo 2017)