Soglie – Wiesel e Chad Gadya
Nella storia ebraica ogni uomo, ogni animale, ogni evento è collegato agli altri in un’unica vicenda. C’è un celebre canto di Pesach, Chad Gadya, che riassume quest’idea. In esso gatto e cane, bastone, fuoco e acqua, il bue e l’uomo che lo macella sono parti della stessa storia. Una storia di vittime che sono anche carnefici, in un circolo che sembra illustrare una legge della sopraffazione universale. Di questo scrive Elie Wiesel in A Passover Haggadah, un’edizione della Haggadah di Pesach con il suo commento; ma ne scrive anche in un indimenticabile racconto contenuto nel volume L’ebreo errante, pubblicato anni fa da Giuntina, dal titolo L’ospite di una sera.
Ungheria, 1944. Il Paese è invaso dalla Germania nazista mentre una famiglia di ebrei, di cui fa parte il giovane protagonista, celebra il seder di Pesach. L’ospite è un profugo polacco che agli occhi del narratore è anche Elia, il profeta: verso la fine del seder esce di casa correndo e scompare senza lasciare tracce.
“Il cuore pesante, ritornammo a tavola e alzammo i nostri bicchieri ancora una volta. Recitammo le consuete benedizioni, i salmi e, per finire, cantammo Chad Gadya, questo terribile canto in cui, in nome della giustizia, il male attira il male, la morte chiama la morte, finché l’Angelo sterminatore non si fa a sua volta sgozzare dall’Eterno stesso, benedetto egli sia. Amavo questo canto ingenuo dove tutto sembrava semplice, primitivo: il gatto e il cane, l’acqua e il fuoco, di volta in volta carnefici e vittime, destinati a subire la stessa punizione all’interno di uno stesso disegno. Ma quella sera il canto non mi piacque. Mi ribellavo contro la rassegnazione che esso implicava. Perché Dio agisce sempre in ritardo? Perché non ha eliminato l’Angelo della Morte prima che fosse stato commesso il primo omicidio?”.
Chad Gadya vuole suscitare compassione per una piccola capra? Oppure mostrare come procede la giustizia divina, la legge insondabile? La parabola di tutti i protagonisti, che di volta in volta compaiono e vengono inghiottiti nel vortice di violenza che ossessivamente si ripete, trova un senso nel finale del canto, con la morte della morte? E’ immediato pensare che la canzone evochi il destino del popolo ebraico, almeno secondo Wiesel. Un destino che perpetua storie di inevitabile dolore, oppure catena che può essere infranta, scrivendo alla storia un finale nuovo, un esito diverso? Per me è difficile trovare una risposta univoca, limpida, netta. Per la prima volta quest’anno Elie Wiesel non sarà al Seder di Pesach, ma ci accompagnano le parole con cui smaschera l’identità dell’ospite, e con cui il racconto si chiude: “Alla fine di un lungo viaggio che sarebbe durato quattro giorni e tre notti egli scese in una piccola stazione, vicino a una cittadina tranquilla, da qualche parte nella Slesia, dove già l’attendeva il suo carro di fuoco per portarlo in cielo. Ciò non prova abbastanza che era il profeta Elia?”. Non è forse vero che Pesach è la festa della gioia nella tristezza, della tristezza nella gioia?
Giorgio Berruto
(13 aprile 2017)