Ticketless – Strategia del rinvio
“Firenze non è più dei fiorentini, immaginati che sono arrivati più di 15 mila piemontesi”. In questo clima euforico, l’8 novembre 1865, Giacomo Dina descriveva al segretario di Cavour, Isacco Artom, la trasformazione in atto a Firenze divenuta capitale. “Il dialetto di Gianduja prevale nelle vie, nelle locande, nei teatri”. Per poco che si vada di questo passo, scrive il direttore dell’”Opinione”, “il fiasco tradizionale scomparirà dalle locande”. Gli ebrei italiani non furono insensibili a quel clima di attesa e si misero in movimento. Due anni dopo, nell’aprile del 1867, converranno a Firenze le massime autorità religiose per stabilire quale strada imboccare nel confronto con la modernità. Per commemorare l’evento si è svolto la settimana scorsa un seminario (promosso dall’Archivio Terracini, dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dall’Università di Firenze). Tutte le relazioni, davvero stimolanti e innovatrice, si possono adesso seguire on line.
Ciò che mi sembra emerga dai lavori del convegno del 1867 è l’altitudine della discussione, l’impegno dei singoli protagonisti, l’autentico desiderio di rinnovamento, ma l’assenza di un disegno politico e di una volontà capace di arrivare ad una decisione condivisa e, soprattutto, duratura. Anche la speranza di Marco Mortara, coltivata per una vita intera, di vedere riunito un Sinedrio rabbinico che fissasse il quadro generale dell’ebraismo italiano rimase nel mondo dei sogni. C’è da interrogarsi sul destino di questa ostinazione impolitica, questa strategia del continuo rinvio, del decidere di non decidere, così simile alla non-politica della classe dirigente italiana tout court. Una singolare osmosi, una impoliticità “parallela” fra ebrei e italiani attuatasi in nome della speranza che le cose si aggiustino da sole. A forza di decidere di non decidere, altri decisero e decideranno per noi.
Alberto Cavaglion
(10 maggio 2017)