Tradurre noi stessi a noi stessi
Domenica mattina, Salone del Libro. Chi è in coda per entrare digerisce abbastanza bene la novità dei controlli di sicurezza (purtroppo diventa ogni giorno più difficile metterne in discussione la necessità); unica nota stonata l’attivista BDS che cerca di convincere la gente che comprare stampanti o cartucce di una nota marca è un crimine contro l’umanità (al confronto guerre, attentati, bombardamenti sui civili, e altre cose che si sentono quotidianamente sul Medio Oriente sono bazzecole). Se non si può neanche finire di entrare al Salone prima di sentire i soliti violenti attacchi contro Israele mi domando con preoccupazione cosa succederà agli incontri sulla letteratura israeliana e sulla traduzione dall’ebraico. Invece fortunatamente fila tutto liscio, ed è un piacere, una volta tanto, sentir parlare di Israele come si parla di qualunque altro Paese al mondo.
L’incontro con Elena Loewenthal sulla traduzione dall’ebraico mi incuriosiva particolarmente perché paradossalmente è un tema con cui si confrontano non solo i traduttori professionisti ma anche le persone come me, i semianalfabeti che se la cavicchiano appena appena con i sottotitoli dei film e vanno già in crisi quando si tratta di capire i titoli di un quotidiano. In effetti il primo esempio citato di frase che non si può tradurre è proprio quello che ho sperimentato anche io tante volte: quando le persone chiedono di dire una frase in ebraico per sentire come suona, quasi sempre vogliono sapere come si dice “ti amo” e tocca subito precisare che è diverso se un uomo lo dice a una donna o viceversa.
Mentre ascolto le numerose altre riflessioni interessanti che seguono mi rendo conto di un fatto sconcertante: per noi ebrei della diaspora il problema della traduzione dall’ebraico non si pone solo quando cerchiamo di comunicare il nostro ebraismo al mondo esterno, ma riguarda prima di tutto noi stessi: non c’è discorso di rabbino, non c’è gruppo di studio, non c’è neppure un’occasione festiva in cui non sia necessario utilizzare qualche termine in ebraico di cui non esiste l’equivalente in italiano; ma, al contempo, il termine ebraico deve essere spiegato perché non tutti lo conoscono. E così non solo quando dobbiamo illustrare l’ebraismo agli altri, ma anche quando ne parliamo tra di noi fatichiamo a trovare le parole giuste per farlo. Capiamo che parlare di mitzvot, di Tanakh o di Talmud in italiano è riduttivo, ma al contempo non siamo capaci di fare diversamente. Ci rendiamo conto che i termini della nostra lingua madre, quelli che conosciamo bene (peccato, salvezza, redenzione, ecc.), non si adattano alla nostra identità, ma spesso non siamo in grado di usarne altri. In un certo senso viviamo in perpetuo esilio da noi stessi (e questo in effetti è triste), ma al contempo siamo continuamente occupati a tradurre noi stessi a noi stessi; e questa, tutto sommato, è un’impresa affascinante.
Anna Segre
(26 maggio 2017)