Maggio ’44 in Val Sangone
Nella primavera del ‘44, al tempo della grande offensiva nazifascista nelle valli del Piemonte, mio nonno Aldo Melli z’’l ha 15 anni. Dopo l’8 settembre i genitori hanno trovato rifugio a Forno di Coazze, una piccola frazione sopra Giaveno, in Val Sangone, dove non esiste elettricità e acqua corrente. La minuscola borgata è collegata ai paesi del fondovalle da un sentiero in terra battuta. Con l’arrivo della bella stagione Aldo scappa di casa per unirsi alla banda partigiana “Sergio De Vitis”, attiva nella valle. Ad aprile un grosso lancio di armi da parte degli Alleati si risolve in un fallimento, con la maggior parte delle casse che cade nelle mani dei militi fascisti ed enormi rischi corsi per recuperare qualcosa che spesso, una volta montato, si scopre inutilizzabile. Per consentire il lancio notturno, a lungo atteso, i partigiani accendono fuochi che anche altri occhi possono vedere. E che infatti altri occhi, quelli dei tedeschi e dei loro alleati, vedono. Immagino mio nonno ragazzo con il naso in su, a cercare nel buio pezzi di mitragliatrici e nastri di munizioni che piovono dal cielo appesi a piccoli paracaduti, indeciso se gettarsi con i compagni alla ricerca di quella manna oppure allontanarsi prudentemente.
Poi, il 10 maggio, dopo alcuni rastrellamenti nelle valli del cuneese, almeno duemila nazifascisti, in maggioranza italiani, arrivano in Val Sangone. Salgono verso Forno di Coazze e piazzano posti di blocco più in basso, a emiciclo, per chiudere i partigiani in una morsa: sotto Giaveno e presso i paesi di Avigliana, Trana e Cumiana. Salgono. Ai partigiani resta una sola via aperta, quella delle montagne. Gli uomini della “De Vitis” si ritirano in disordine verso l’alpeggio del Sellerì, ma sono in molti a cadere. Ci sono altre formazioni partigiane nella zona, ma il coordinamento è quasi nullo, le armi scarse e insufficienti le munizioni; per di più la valle è molto stretta ed è difficile scivolare tra le maglie lasciate aperte dai rastrellatori. E’ l’alba del 10 maggio e i nazifascisti avanzano, avanzano all’alba di un giorno qualunque di 73 anni fa, un arco di tempo inferiore a quello della vita di un uomo. I partigiani si difendono come possono e fuggono verso le cime, intere borgate, tra cui Forno, vengono date alle fiamme e numerosi civili condotti a valle. I partigiani cadono a dozzine, la banda “De Vitis” è decimata e i sopravvissuti arrestati o dispersi. I fascisti passano vicino a Aldo, a pochi metri, ma non lo vedono e proseguono oltre. Mio nonno si salva per caso. Aspetta il calare della notte per gettarsi a valle e guadare nel buio il torrente Sangone.
Il 18 maggio i rastrellatori abbandonano la Val Sangone e ridiscendono in pianura, ma continuano ancora per settimane le incursioni, per spostarsi poi più a nord, nella zona di Lanzo. Il volume “Italiani insieme agli altri. Ebrei nella Resistenza in Piemonte 1943-1945”, frutto del lavoro di Gloria Arbib e Giorgio Secchi sulle carte dell’Archivio Ebraico Benvenuto e Alessandro Terracini, di Torino, e pubblicato da Zamorani, tenta di seguire i percorsi di decine di ebrei piemontesi nella Resistenza. A volte le notizie sono molte, a volte scarse; obiettivo è allora riannodare i fili spezzati della memoria e tesserli insieme. E non smettere di riunirli e tesserli ancora perché il tempo fa presto a sfilacciare lo spago e sciogliere i nodi. L’oblio si vince tessendo e tessendo, senza posa, tessendo memorie di uomini importanti, di eroi della lotta di Liberazione, e di ragazzi di 15 anni con il naso in su.
Giorgio Berruto, HaTikwà/Ugei
(8 giugno 2017)