L’opzione progressista
I sondaggi precedenti alle elezioni generali tenutesi l’8 giugno in Regno Unito, hanno rivelato tra l’altro che solo il 13% degli ebrei inglesi avrebbe votato il Labour di Jeremy Corbyn. Una cifra che comunque alcuni hanno trovato relativamente sorprendente, tra questi il Jerusalem Post e il Jewish Chronicle, visto che un altro sondaggio interno alle comunità ebraiche inglesi stimava i votanti laburisti ad una percentuale dell’8%. Premettendo che probabilmente questi sondaggi sono rivolti a chi è formalmente iscritto ad una comunità ebraica, il perché di questo lieve incremento e di una perdurante fedeltà ai laburisti, potrebbe essere spiegato in vari modi: il Labour come ogni partito è composto da varie correnti e gruppi e tra questi non mancano quelli vicini a Israele, così come rimane al suo interno un buon numero di candidati ed esponenti ebrei, storicamente poi gli ebrei inglesi affondano le loro radici nella working class proveniente dall’Est-Europa e sono sempre stati più laburisti che conservatori. Inoltre c’è anche da considerare che nessun partito politico di destra o di sinistra in Europa è realmente esente dall’antisionismo o dall’antisemitismo.
Seguendo queste premesse, sarebbe più interessante allora riflettere su cosa ha allontanato gli ebrei inglesi dal Labour di Corbyn, tenendo anche presente che quando il partito nel 2010 era diretto da Ed Miliband, non c’era una grande differenza di votanti ebrei tra i due partiti principali. Le ragioni in realtà non c’è bisogno di ripeterle, sono in gran parte dovute alla figura di Jeremy Corbyn e alle sue posizioni ostili su Israele e al suo non nascosto sostegno verso Hamas, Hizbollah, e altri movimenti islamisti e antisemiti. Sono quindi queste “simpatie” che andrebbero meglio esplorate e che non riguardano soltanto il Labour di Corbyn ma anche numerose frange della sinistra democratica o radicale in Europa.
Se l’antisemitismo di qualunque colore potrebbe essere spiegato come un sentimento presente ormai nei meandri della storia e della “cultura” europea, l’islamismo è un fenomeno moderno. Questo per molti, specie nella sinistra radicale, rimane paradossalmente, celatamente o meno, quasi un oggetto di fascino, e il terrorismo che ne deriva continua ad essere relegato sovente ad un “effetto collaterale” dell’imperialismo occidentale, a un movimento di resistenza, se non propriamente per i più disincantati ad una reazione locale/globale della nascita di Israele. Mio padre (il quale in tutta la vita non ha mai votato a destra) ritiene per esempio che se negli anni ’70-’80 la sinistra radicale in sintonia con le posizioni dell’Ex Urss fosse filo-araba, al giorno d’oggi questa sia in buona parte direttamente filo-islamista. Un punto di vista discutibile, ma confermato da numerose affermazioni e articoli di portali o giornali comunisti o simili che sostengono apertamente organizzazioni come Hamas o Hizbollah – si veda tra gli altri un’intervista del quotidiano turco Evrensel a Hassan Nasrallah dal titolo “un fronte unico contro l’imperialismo” riportata più volte su giornali di questo tipo – o addirittura chi come il Partito Marxista-Leninista giunse ad elogiare gli aguzzini del Daesh.
Si tratta è vero per lo più di realtà marginali ed extraparlamentari, lontane dalla sinistra cosiddetta “mainstream”per lo più immune a queste tendenze, ma che come nel caso di Corbyn o Melanchon potrebbero tornare presto alla ribalta anche altrove, e che insieme ad altri “germi” che infestano certe parti della stessa area, come il rossobrunismo, il marxismo-leninismo, il sovranismo, il complottismo o le simpatie per personaggi come Putin o Assad, dovrebbe portare ad una seria riflessione non solo interna ma anche esterna.
Francesco Moises Bassano
(16 giugno 2017)