Relativizzare per neutralizzare
Punto e a capo. Già nei mesi scorsi le cronache si erano incaricate di informarci del perché la premier polacca, la signora Beata Szydło, intendesse ricorrere alle vie di fatto rispetto all’abitudine, molto diffusa anche nella stampa europea, di definire Auschwitz in quanto «campo polacco». Il nome del luogo in cui sorgeva il Lager è Oświęcim, una importante municipalità, con circa quarantamila residenti, a tutt’oggi presente nella toponomastica di quel paese. Nel sistema amministrativo nazionale è capoluogo di distretto. Non una località insignificante, per intenderci, ma un luogo della memoria della coscienza europea come anche un cittadina con una storia a sé, un passato e, quindi, un futuro. Si dovrebbe trattare di un elemento notorio ma è spesso dimenticato. Un conto era il campo di concentramento e sterminio edificato dai tedeschi, le cui vicende, dal 1940 al 1945, sono stata lungamente ricostruite e raccontate; un altro il distretto e la sua area urbana. Tra le righe, va ricordato che la stessa Szydło, vicepresidente del partito Diritto e Giustizia, che ha vinto le elezioni politiche dell’ottobre del 2015, è originaria di Oświęcim. Sta di fatto che l’attuale esecutivo ha presentato in Parlamento una bozza di legge che giunge a punire severamente, anche con la traduzione in carcere, chi dovesse fare ancora ricorso pubblico ad una tale dizione. La cui erroneità, a detta dei ricorrenti, non è solo storica ma anche politica e morale. Nel parlamento bicamerale il partito della premier, Prawo i Sprawiedliwość, abbreviato in PiS, conta su una buona maggioranza (235 seggi su 460 al Sejm, la Camera dei deputati e 61 su 100 al Senato). Per inciso, la sua collocazione politica è formalmente ancorata ad un centro-destra che nei fatti si rivela tuttavia molto sbilanciato a destra, rifacendosi al conservatorismo sociale, ad una visione nazionalista, all’euroscetticismo e alla “centralità delle istituzioni tradizionali”, tra le quali la Chiesa cattolica. Alcuni osservatori, e molti critici, ritengono l’attuale maggioranza governativa fondamentalmente populista e tendenzialmente illiberale. Si tratta di un giudizio politico che, come tale, può essere condiviso o meno. Tuttavia è certo che in questi ultimi due anni, da quando il PiS è al governo, tensioni e preoccupazioni si sono moltiplicate. Si è passati dalle note diplomatiche di Varsavia contro i «commenti antipolacchi», attribuiti ad alcuni partner europei, preoccupati per la piega presa dai processi decisionali assunti dall’esecutivo, alle diffuse proteste, anche nella stessa Polonia, contro le nuove leggi di ispirazione governativa. Così nel merito di quella sui mezzi pubblici di informazione (un diffuso network che comprende quattro reti televisive e circa duecento canali radiofonici, la cui dirigenza è adesso nominata dal governo nella persona del ministro del Tesoro), nonché riguardo alla riforma del Tribunale costituzionale (un organo dello Stato al quale compete il giudicare in materia di conformità alla Costituzione delle leggi approvate dal Parlamento), insieme a molte decisioni e norme minori ma di rilevante impatto collettivo. I numerosi critici vedono una forte piegatura, rispetto agli interessi dell’attuale maggioranza, di organismi di controllo che, per la loro delicata natura, dovrebbero invece continuare a rimanere imparziali. Non di meno, altra accusa mossa a Diritto e Giustizia è quella di cavalcare le campagne contro la cosiddetta «ideologia gender» per limitate l’autonomia e i diritti delle donne, arrivando gradualmente a vietare l’aborto, i percorsi di educazione sessuale, le tutele contro la violenza di genere e domestica. Queste le premesse di cornice riguardo a notizie, invece, di cronaca più recente. Mercoledì scorso, infatti, Beata Szydło, proprio a Oświęcim, celebrando il settantasettesimo anniversario dell’arrivo del primo convoglio di deportati nel campo di concentramento (circa ottocento polacchi, tra cui alcuni ebrei), ha avuto modo di affermare testualmente: «in questa nostra epoca travagliata Auschwitz è una grande lezione che ci mostra che occorre fare qualsiasi cosa per difendere la sicurezza e la vita dei nostri cittadini». La frase in sé, in quanto decontestualizzata, poteva benissimo cadere nel vuoto. Una espressione anodina, di senso comune, quanto meno all’apparenza. Ma una grande parte dell’uditorio, nonché dell’informazione internazionale, ha voluto leggervi un nesso, ai limiti dell’offesa blasfema, tra la situazione in cui le comunità ebraiche, la Polonia e altri paesi europei si trovarono nel passato davanti all’aggressione nazista e i processi migratori che stanno investendo il Continente in questi anni. A surriscaldare gli animi è senz’altro la contrapposizione, oramai dichiarata apertamente in questi ultimi mesi, tra l’Unione europea e il Gruppo di Visegrád. Quest’ultima è l’alleanza di quattro paesi dell’Europa centrale, ossia la Polonia la Repubblica ceca, l’Ungheria e la Slovacchia. Il merito del conflitto è quello che rimanda ad una serie di questioni concernenti l’applicazione degli accordi comunitari, tra le quali pesano moltissimo le politiche sull’immigrazione. Ai primi tre Stati Bruxelles contesta ufficialmente, attraverso l’apertura di una procedura di infrazione (un procedimento in base al quale si sanziona l’eventuale inadempienza al diritto comunitario), il rifiuto di accogliere le quote di ripartizione dei migranti dall’Italia e dalla Grecia, così come invece precedentemente stabilito e sottoscritto. Anche per via di questa premessa molti hanno interpretato le affermazioni della leader nazional-conservatrice come un’intollerabile provocazione. Tra gli altri Donald Tusk, già primo ministro polacco e ora presidente del Consiglio europeo, organismo di indirizzo dell’Unione. Accostare il passato dello sterminio al presente dei flussi migratori costituisce, nella migliore delle ipotesi, un’oscena banalizzazione. Posto che la Szydło è tutto fuorché una ingenua, molti dei suoi critici hanno denunciato il calcolo politico che ne connoterebbe l’intera comunicazione. Rivolgendosi perlopiù al suo elettorato, la premier ne va legittimando le spinte più euroscettiche attraverso il ricorso ad irrisolte pulsioni xenofobe. Non diversamente dall’omologo ungherese Viktor Orbán, che ha fatto approvare, in tempi recenti, una legge che ha imposto un giro di vite sulle Organizzazioni non governative straniere, accusate di adoperarsi contro gli «interessi della nazione magiara». Particolare avversione è stata manifestata nei confronti delle attività finanziate da George Soros, dipinto come una sorta di quinta colonna operante ai danni dei gruppi dirigenti dell’Europa orientale. Soros, per chi non lo rammentasse, è al medesimo tempo di origini ungheresi ed ebraiche. Varsavia e Budapest sempre più spesso manifestano una comunanza di visioni rispetto alla reinterpretazione in chiave nazionalista del passato recente dei loro paesi. Il binomio che vanno proponendo sembra essere quello che lega il desiderio di riscrivere i trascorsi, semplificandoli se non trivializzandoli in funzione di una esasperazione dell’identità etno-nazionale, ad una concezione punitiva del presente, dove ai problemi introdotti dai cambiamenti sociali ed economici si risponde con spinte proibizioniste ed aggressive. La qual cosa si porta con sé il rischio di non poche complicanze e implicazioni, tra le quali la costruzione e l’imposizione di una sorta di “memoria di Stato” che si sostituisce alla libera discussione tra l’opinione pubblica, finendo con il determinarne a priori contenuti e obiettivi nonché spazi e vincoli di libertà di ricerca e comunicazione. Ad essa si associa la tentazione, presente un po’ ovunque ma da certe forze politiche europee espressa con particolare forza, di sostituire alla riflessione critica un insieme di attestati fideistici, non importa quanto (e come) supportati da riscontri nei fatti, insieme all’insofferenza, sempre meno celata, verso l’altrimenti necessaria comprensione della complessità del passato, dove coni d’ombra, ambiti di compromissione, “zone grigie” di collusione con l’occupante si intervallavano a nette opposizioni, a limpidi sacrifici e a dichiarati dinieghi. La questione della collaborazione, e del collaborazionismo, con le forze dell’Asse nell’Est europeo rimane, da questo punto di vista, un terreno scivoloso poiché non demanda al solo passato ma anche e soprattutto al modo con il quale i partiti e i movimenti politici dell’oggi valutano la storia nazionale per dare un senso e un fondamento all’identità collettiva odierna. Di riflesso, il discorso su Auschwitz raccoglie queste tensioni, tanto più quando si confronta, attraverso improponibili associazioni, se non inaccettabili parificazioni, con i temi dell’agenda europea. È allora significativo che ad avere aperto un nuovo terreno di conflitto sul passato, e sulla sua fruizione nel discorso pubblico, non siano state le forze politiche liberaldemocratiche, centriste o socialiste ma quell’ampio novero di soggetti emersi in questi anni dalla crisi dei processi d’integrazione europea, tra i quali lo stesso PiS dei gemelli Lech e Jarosław Kaczyński e di Beata Szydło. In quanto dietro a quest’ordine di prescrizioni non c’è il bisogno di ricordare, funzione in sé complessa, ma la necessità, quasi angosciata, di selezionare frammenti di ciò che fu in maniera molto selettiva e, soprattutto, a tratti quasi coercitiva. In accordo con la visione che si ha della società da governare.
Claudio Vercelli