Fobie e distinzioni
Ragioniamo a spanne, poiché si tratta di un tema delicato e non si può pensare di risolverlo con qualche riga tranciate. Fortunati coloro che ritengono di avere le idee chiare e certe da subito; disgraziati quanti, invece, ne debbono subire gli effetti. Difficile, infatti, avere pretese di compiutezza sulla questione, che ha attraversato anche queste pagine, del “raffronto” e dell’eventuale rapporto tra antisemitismo e ciò che viene definito come «islamofobia». Un tornante è stato offerto senz’altro della recente tavola rotonda milanese. Ma non è questione che dati ad oggi. C’è infatti chi addirittura si spinge ad affermare che nelle nostre società si stia passando dal rifiuto degli ebrei a quello dei musulmani. Come se si stesse verificando una specie di trasmissione e di traslazione. Dai primi, ora integrati una volta per sempre, agli altri, destinati a soppiantarne la scomoda posizione trascorsa. Proviamo quindi a cercare di rifletterci sopra, senza farsi prendere subito dal desiderio polemico che altrimenti offusca qualsiasi giudizio. E mettiamo il tutto per punti, tanto parziali quanto necessari. In successione, la prima questione rimanda al metodo: comparare non implica parificare. Così come comprendere non è mai giustificare. Semmai l’una cosa, la comparazione, così come la seconda, la comprensione, possono aiutare a mettere meglio a fuoco una risposta argomentata rispetto sia alla reale condizione di vittime (di pregiudizi così come di violenze) che al più volte richiamato, poiché ambiguamente gratificante, vittimismo (inteso come costrutto mentale per cui “siamo vittime a prescindere, molto se non tutto ci è dovuto; guai a chi dovesse pensare altrimenti!”). L’essere vittime di atti di discriminazione, se non peggio, è cosa diversa dal costruirci sopra una identità assoluta, che non accetta nessuna verifica. Detto questo, il secondo passaggio è che tutta la questione della comparabilità è resa in questo caso molto difficile dal momento che l’aggrovigliato tema di fondo, ossia il mondo musulmano, la sua percezione (ed esperienza) tra i non musulmani e le trasformazioni che si accompagnano alla realtà in cui viviamo, laddove la presenza islamica è andata non solo diffondendosi demograficamente ma manifestandosi a volte come identità politica, incide enormemente nei giudizi che ognuno di noi va formulando. Polarizzandoli all’interno di due radicalità: da una parte, il cosiddetto «scontro di civiltà», dove l’inconciliabilità ne costituisce il paradigma dominante; dall’altra, l’istanza delle buone intenzioni, dei grandi sentimenti, della “bontà” morale, che porta all’indistinzione e alla rimozione dei numerosissimi problemi che invece sussistono, tanto più in un rapporto comunque a dir poco difficile come quello che si intrattiene con chi porta con sé esperienze e concezioni del mondo molto diverse dalle propria. Il terzo momento rimanda al fatto che il comparare, se non c’è una comune piattaforma di significati da attribuire alle parole che si usano, rischia in sé di assumere i toni dell’astrazione accademica, specchio capovolto della chiacchiera da bar. Mentre in questo secondo caso tutto si frantuma in una serie di invettive nobilitate da un involucro insindacabile di rabbia e indignazione, sparando ad alzo zero contro chi si esprime diversamente, nel primo la costruzione di categorie generalizzanti consegna frequentemente il confronto con i dati concreti dell’esperienza ad una specie di cristallizzazione del pensiero, dove il vero obiettivo non è l’identificazione della natura di un fenomeno sociale ma il conforto e l’adesione altrui alle proprie idee (in altre parole, ai propri pregiudizi). Peraltro, la letteratura “scientifica” è ancora distante dall’avere trovato una definizione condivisa di islamofobia. A meno che non ci si accontenti, per così dire, di affermare che è l’insieme dei pregiudizi nutriti dai non musulmani verso i musulmani (il che, nel volere dire tutto, non spiega nulla). La quarta questione è la dimensione politica del problema: è fuor di discussione che vi siano musulmani disponibili al dialogo, all’integrazione e a quant’altro. Non di meno, sappiamo che le società islamiche sono variegate e articolate al loro interno. Ma la differenza, rispetto ad altri contesti, è dettata dal sistema di valori che l’islamismo radicale va da tempo coltivando. Ben lungi dal costituire un fenomeno collaterale e riconducibile a qualche piccola frangia occasionale e circostanziata, quest’ultimo costituisce un’ipoteca di per sé “pregiudiziosa”. Verso i non musulmani come nei confronti di quei correligionari che sono denunciati come apostati e traditori, poiché non proni e chini alla volontà dei movimenti radicali. Mille volte sono state introdotte le necessarie e doverose distinzioni, evitando la logica del «mucchio selvaggio», che è poi ciò che gli islamisti invece rivendicano per sé, cercando come immeritato premio la rappresentanza di un miliardo e mezzo di persone. Rimane l’ombra di una violenza politica che si fa prima identità militante e poi calco collettivo. Va ripetuto ancora una volta: non si tratta di un problema di tutti i musulmani ma nasce comunque dentro il mondo musulmano. L’incapacità – se non l’indisponibilità – ad affrontarne radici ed effetti, ancorandosi invece ad un vittimismo che è presentato come un tratto della propria condizione, è elemento della costruzione del pregiudizio medesimo; non certo strada per la sua identificazione, negoziazione e, quindi, soluzione. Il quinto fattore è la dimensione demografica, che piaccia o meno. Va quindi ricordata, senza storcere il naso. I numeri contano, nella storia come nella politica. Possono fare la differenza. L’avversione verso gli ebrei si è spesso esercitata come falsa “autotutela” della maggioranza, non ebraica, nei riguardi di una minoranza coesa ma in condizione di forte asimmetria nei confronti del mondo circostante, di cui costituiva comunque parte integrante. L’accusa rivolta al giudaismo era semmai quella di essere “troppo eguale” e, quindi, come tale minacciosamente indistinguibile. Gli atteggiamenti variamente definibili come pregiudiziosi verso i «musulmani» (la virgolettatura serve a segnalare che la parola è qui usata in chiave generalizzante e acritica, quasi fosse uno stigma, come di prassi avviene nei discorsi a matrice razzista) hanno uno sfondo storico, politico e, per l’appunto, socio-demografico che condivide scarse o nulle analogie con la situazione vissuta dalle società ebraiche nel corso del tempo. Non per questo può essere da subito sentenziato che non esistano. Ma se così stanno le cose, non possono comunque essere disinvoltamente sovrapposti a quelli antiebraici. Le identità musulmane non sono percepite come propense all’adattarsi. e poi all’integrarsi, nelle società ospiti. Semmai il timore che i non musulmani avvertono è quello di potere essere costretti, nei tempi a venire, ad omologarsi ai codici culturali, comportamentali e ideologici dell’Islam politico, quand’esso dovesse preponderare. Che ciò sia anche il prodotto di una estremizzazione della percezione altrui, cambia ben poco, se non nulla, rispetto ad una riflessione sulla costruzione del pregiudizio. Proprio perché il pregiudizio si alimenta molto di impressioni, di cose dette, di luoghi comuni, di idealizzazioni negative, quindi di generalizzazioni angoscianti. Il sesto elemento è il nesso, altrimenti rifiutato, soprattutto in ambito musulmano, tra antisemitismo e antisionismo. Si può molto discutere – e lo si sta facendo da tempo – sui rapporti tra due negazioni, senza arrivare a diagnosi che mettano tutto (e tutti) immediatamente nello stesso sacco. Ma è molto difficile non vedere come l’antisionismo, anche nelle società occidentali, sia oramai una delle declinazioni del pregiudizio antisemitico. Quanto meno, ne recupera molti aspetti. A partire dall’ossessione con la quale si rinvia al medesimo termine «sionismo», raffigurato con il ricorso ai cliché più vieti dell’antisemitismo di vecchia (e robusta) annata. L’idea persistente che lo Stato d’Israele sia un errore della storia, un’«entità» abusiva, alla quale porre in qualche modo riparo cancellandolo una volta per sempre, è parte del dispositivo antisemitico che afferma che il Popolo d’Israele sia di per sé una minaccia per il fatto stesso di continuare ad esistere. In un cortocircuito persistente, dove qui la traslazione dalla dimensione dell’ebreo diasporico a quella dell’ebreo “collettivo” (Israele, per l’appunto) è invece un elemento assodato. Un settimo indice è il combinato disposto tra il radicalismo islamista come “ideologia della mobilitazione” – quindi nella sua natura di esercizio di rivalsa da parte di quella collettività (in piccola parte anche cristiana, poi convertitasi non ad un credo religioso ma ad una idea totalitaria dell’esistenza) che si considera sfavorita, messa ai margini dai cambiamenti in corso d’opera, alla ricerca quindi di una militanza capace di offrirle una qualche forma di compensazione – e la clamorosa cristallizzazione di poteri, interessi e gerarchie che connota una parte considerevole del mondo arabo-musulmano. Dove i mutamenti perlopiù avvengono per atti di forza, non per ricambio tra classi dirigenti selezionate attraverso la partecipazione collettiva. A danno soprattutto di quelle popolazioni, che ne pagano il prezzo più elevato. La mancanza di esperienze democratiche, di un pluralismo politico che esiste solo ed esclusivamente quando è l’espressione della varietà culturale, morale e religiosa delle società, non è il segno di un divario da colmare. Semmai è il suggello di un sistema di inamovibilità feudali che continua ad operare in non poche di quelle realtà. Dove la sfera degli affari pubblici, per l’appunto l’esercizio della politica, continua a non essere distinta dalle identità religiose, traducendo il tutto in una visione totalitaria delle relazioni sociali e in una garanzia di permanenza al potere per i gruppi corporati. In un tale contesto, le individualità scompaiono. E ancora di più le soggettività di genere o, in senso lato, di identità culturale. A quanti vanno affermando diversamente, incolpando chi si adopera in questi riscontri di essere, consapevolmente o meno, “razzista” o comunque “etnocentrico”, varrebbe la pena di ricordargli che il suo stesso dire non può fare a meno del sistema di valori e di garanzie che le pur anchilosate società liberaldemocratiche sono riuscite, non senza difficoltà e resistenze, a istituire in almeno un secolo e mezzo di storia. Se non di più. Dimenticarsi di questa cornice è un peccato mortale. Il relativismo di giudizio, nel nome di un pluralismo idealistico e puramente formale, è solo l’altra faccia della banalizzazione. Due false virtù, per un concreto vizio di giudizio. Un ottavo fattore da computare è che la storia ebraica, dopo il periodo dei Regni, ha la forma di un mosaico, l’immagine che meglio rende la dimensione diasporica. La nascita di uno Stato degli ebrei è fatto recente, che in parte si incontra e si interseca storicamente con il ridisegno politico dell’area mediorientale e dei paesi a forte presenza musulmana. Il rapporto è sempre e solo il medesimo: uno di contro ai molti. Non solo “uno contro molti”, va bene? Capito? Tuttavia rimane il fatto che il consorzio conflittuale tra Stati musulmani ha prodotto processi diasporici di una parte della propria popolazione, l’emigrazione voluta o forzosa, mentre Israele è il risultato di un’azione centripeta. Non si possono paragonare le pere (i paesi che si autodefiniscono per l’appunto «musulmani») alla mela (“marcia”, secondo certuni, d’Israele)? Ci sia permesso di dissentire in merito. Se ragioniamo di pregiudizi, e di immaginari deteriori ad essi connessi, questi temi hanno la loro rilevanza. Anzi, precipitano dentro la discussione. Altrimenti ci libriamo nello spazio vuoto dei pensieri fini a se stessi. Un nono elemento, già evocato, quanto meno indirettamente nel momento in cui si è richiamata la questione aperta dell’antisionismo, è l’isteria anti-israeliana. Ancora una volta perché l’equazione tra ebreo, sionista e israeliano è immediata. Delle scelte operate dalle leadership dello Stato d’Israele (in immediato riflesso, tuttavia, dai loro elettori, poiché in democrazia un esecutivo esegue un mandato, quello ricevuto dai votanti) si può dire molto, ed in termini anche seccamente critici. Ma il fuoco di sbarramento verso l’esperienza storico dell’ebraismo è un altro indice della difficoltà di istituire facili parallelismi tra il rifiuto degli «ebrei» e l’avversione precostituita contro i «musulmani». Se non altro perché l’esperienza sionista è un tentativo di ricomporre la propria dispersione all’interno di una esperienza politica, mentre l’islamismo radicale, nel nome di un’unificazione del mondo, rimanda all’intenzione di omologare con la forza i diversi dentro una visione tanto messianica quanto apocalittica. Troppa carne al fuoco? Forse. Orizzonti confusi? Possibile. Non per colpa nostra, tuttavia. Rimane il fatto – ed è questo l’ultimo passaggio, il decimo, di un piccolo repertorio di questioni aperte – che l’ebraismo come non è ideologia così non è neanche parte o partito politico. Aspira a terreni di sintesi, non si propone come un totalitarismo. La dimensione dialogica, discorsiva, quindi riflessiva, anche a rischio di viverla in termini di contrapposizione, non costituisce un limite bensì un’opportunità. A patto di trovare i punti di mediazione. I richiami alla condivisione non possono tradursi nell’avversione contro la discussione. Men che meno nelle accuse di “tradimento”, un vecchio movente di chi, professandosi libertario, coltiva invece la considerazione di sé come dell’unico che abbia titolo e nome per pronunciarsi. Visto che si parla di pregiudizi, tanto per non uscire dal solco della riflessione.
Claudio Vercelli
(7 luglio 2017)