L’Italia e la sua realtà ebraica: “Il futuro passa dalla cultura”
Quali sfide devono oggi raccogliere gli operatori delle istituzioni culturali? Quali obiettivi ha senso che si prefiggano? E sono sufficientemente equipaggiati per raggiungerli?
Su questi spunti, a partire dal titolo “Risorse per la cultura, cultura per le risorse”, si sono confrontati ieri, nella cornice del Castello di Miramare, la ‘padrona di casa’ Andreina Contessa, la direttrice del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis), Simonetta Della Seta, Gadi Luzzato Voghera, direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec), e il sociologo nonché esperto di comunicazione Joseph Sassoon. A partecipare alla tavola rotonda, anche Livio Vasieri, assessore ai cimiteri della Comunità ebraica di Trieste, rappresentata all’incontro anche dal consigliere Alessandro Treves.
Un’importante iniziativa organizzata dalla redazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in occasione di Redazione Aperta, il laboratorio giornalistico UCEI realizzato per il nono anno consecutivo a Trieste, come ha ricordato in apertura il direttore Guido Vitale.
“Sono molto contenta di questo incontro – ha introdotto Contessa, da alcuni mesi nel prestigioso e impegnativo ruolo di direttrice del Museo Storico e Parco del Castello di Miramare, che attrae ogni anno circa duecentocinquantamila persone – Appena insediata, la sinagoga e la Comunità sono state tra le prime mete che ho visitato, perciò considero l’ebraismo un po’ il filo conduttore della mia presenza a Trieste”.
Un destino professionale per certi versi parallelo a quello di Simonetta Della Seta, chiamata un anno fa a costruire e dirigere il progetto del MEIS: “Il nostro sarà un centro sull’ebraismo italiano, finanziato pubblicamente e con obiettivi e scopi pubblici. Qualcosa di inedito, dunque, essendo i musei ebraici della Penisola tutti comunitari o territoriali. Certo, la parola ‘museo’ ci limita un po’ – ha confessato la direttrice –, perché parliamo semmai di un polo di cultura sviluppato su oltre diecimila metri quadrati, fino alla Darsena, con un parco, sette edifici, spazi per percorsi espositivi permanenti e mostre temporanee, la biblioteca, le sale di archiviazione, quelle per la didattica, la caffetteria. È un doppio cantiere, edile e di contenuti, e aprirà ufficialmente il prossimo 13 dicembre con un itinerario sui primi mille anni di storia degli ebrei italiani. Ci stanno lavorando storici, curatori, architetti, grafici, editori”.
A portarlo avanti è attualmente un esiguo numero di dipendenti, con il supporto di un Comitato Scientifico formato da esperti di ebraismo, museologia, beni culturali, ricerca storica, sociologia, dialogo interreligioso e comunicazione, e di un cda in cui figurano la Regione Emilia-Romagna, il MiBACT e l’UCEI. “Ad accomunarli è la forte volontà di dare vita a questo progetto, senza contare che anche la città di Ferrara è estremamente consapevole del proprio retaggio ebraico”.
Tra i passi che stanno avvicinando il Museo al compimento, la messa a punto di un nuovo sistema di immagine coordinata, che verrà lanciato in anteprima il 5 settembre, a Roma, con il ministro dei Ben Culturali Dario Franceschini. E a proposito di passi, Della Seta ne ha indicati come ineludibili tre, per rendere i musei vivi e fruibili: “Dobbiamo considerare la cultura come una risorsa che non va svenduta, ma trasformata in valore aggiunto, consentendo alla più ampia gamma possibile di pubblici di accedervi. Il che non significa far pagare tutti nello stesso modo – penso ai minorenni, alle scuole, ai diversamente abili –, ma lavorare alla sua socializzazione”. La direttrice del MEIS ha, poi, tratteggiato la fisionomia dello staff ideale: “Giovani preparati, aperti e motivati, capaci di vedere le cose con occhi nuovi, creativi e flessibili”. E ha concluso individuando nella comunicazione un’ulteriore chiave di volta: “Gli attori dell’ebraismo italiano hanno sempre comunicato poco ciò che fanno. Per anni, ad esempio, nell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) è mancato un esponente del CDEC, malgrado la ricerca sulla Shoah italiana sia nata e cresciuta lì. Per fortuna adesso c’è Gadi Luzzato Voghera. E per fortuna abbiamo Pagine Ebraiche, che svolge un ruolo comunicativo prezioso”.
Sulla stessa lunghezza d’onda, proprio Luzzato Voghera, che ha ripercorso il cammino sinora intrapreso alla guida del CDEC: “Il centro di studi comprenderà, in prospettiva, uno spazio museale e dovrà, quindi, porsi il problema di interagire non solo con il mondo scientifico, ma anche con quello dei visitatori, promuovendo all’esterno il patrimonio che racchiude. La sfida è decisiva, ma siamo attrezzati?”. Nel dubbio, c’è una nota positiva: “L’attuale gestione del MiBACT sta determinando una svolta come non se ne vedevano da decenni. E vista la congiuntura favorevole, i singoli istituti dovrebbero avanzare proposte e cercare di rafforzarsi. Oltre a muovere denaro, la cultura è un fattore insostituibile di costruzione delle politiche della convivenza e pure su questo bisognerebbe investire. Altrimenti si rischiano derive pericolose”.
Nota dolente, invece, i numeri: “In questi mesi di rapporti con istituti ‘gemelli’ esteri – ha spiegato il direttore del CDEC –, ho realizzato quanto siamo sottodimensionati: nel reperimento dei fondi, nel personale a disposizione, nella possibilità concreta di cogliere o meno certe opportunità. Stiamo intervenendo molto sulla formazione e abbiamo da poco vinto un piccolo bando della Rothschild Foundation per dotarci di bibliotecari qualificati. Dopo di che, però, servono i posti di lavoro…”. E non è irrilevante nemmeno il budget, ha aggiunto Luzzatto Voghera: “La Fondazione fa parte del consorzio internazionale EHRI (European Holocaust Research Infrastructure) per la digitalizzazione e la messa online del materiale legato alla Shoah, e con noi ci sono circa altri venti soggetti, dallo Yad Vashem all’Holocaust Memorial Museum di Washington, fino a quello di Parigi. La differenza è che loro possono permettersi azioni di didattica, studio, etc. non alla nostra portata. Del resto, il CDEC può contare su seicentomila euro all’anno, contro i sedici milioni di Parigi. Nonostante le potenzialità ci siano – un enorme mole di documenti, immagini, informazioni conservati dalle comunità ebraiche e nei musei, e una grande fame di conoscenza da parte della società italiana –, dobbiamo autolimitarci. Non si può più fare riferimento allo Stato come rubinetto erogatore, ma il legislatore deve capire che, se vuole cambiare la psicologia del mecenatismo privato e incentivarlo, deve creare gli strumenti adeguati, rivedendo le agevolazioni fiscali”.
Sull’interesse da parte del pubblico per la vita comunitaria ebraica – triestina, nella fattispecie – si è soffermato anche Livio Vasieri, che ha però lamentato due problemi: la latitanza delle autorità e la disinformazione, “anzi l’idiozia. Due giorni fa, ad esempio – ha riferito –, dei vandali hanno distrutto quattro tombe nel cimitero di Gorizia”.
Teppisti che cercano di cancellare la memoria, di interrompere con la violenza il racconto dell’ebraismo. Forse perché quella narrazione può costituire una potente leva di attrazione, come ha sottolineato Joseph Sassoon, che fa parte del team al lavoro sula campagna UCEI per l’Otto per mille: “Non è un compito semplice, perché l’Unione è un mondo vivace, polemico, articolato e contradditorio, mentre il messaggio pubblicitario, oltre a contenere ganci attenzionali e avere ritmo e intensità, deve essere sintetico. In ogni caso, anche nella sintesi, a funzionare è lo storytelling. Basti pensare alle ultime presidenziali americane: lo slogan di Trump, ‘Make America Great Again’, ha avuto la meglio sullo ‘Stronger Together’ di Hillary Clinton”. Complice l’avvento dei social media, che dal 2004 hanno provocato una rivoluzione copernicana nel nostro modo di comunicare, siamo immersi in flussi a due vie, con un gigantesco scambio di informazioni. Ma un conto sono i dati e un altro le storie, che battono i primi di parecchie incollature. Ed ecco, allora, una gara per la supremazia narrativa nel mercato delle marche, mentre lo storytelling è diventato un atout spesso decisivo per chi è a caccia di investitori. “Ora si tratta di applicare la stessa logica al mondo della cultura – è la ricetta di Sassoon –, di trasmettere in modo efficace e persuasivo le straordinarie condensazioni di storie di cui i musei sono depositari”.
Un’impresa ardua, per Luzzato Voghera, che ha dipinto l’ebraismo italiano come “psicologicamente bloccato sul piano della narrazione, come se avesse paura di raccontarsi”. Ma allo stesso tempo, secondo Della Seta, “in linea con progetti come il MEIS, che sin dal nuovo logo conterrà un racconto ogni volta diverso, porrà domande, funzionerà come un luogo aperto, un laboratorio di pensiero e di approfondimento”.
Tirando le fila, Andreina Contessa non ha nascosto le difficoltà che deve quotidianamente affrontare: “Miramare sta attraversando una fase critica, perché l’organico è scarso. E anche se per la cultura – è l’analisi della direttrice – questo è un momento positivo, di riforme che la stanno modificando in modo dirompente, il discorso è ancora troppo giocato sui numeri (entrate, prima domenica del mese, etc.) e troppo poco sui contenuti e la qualità”.
I correttivi suggeriti da Contessa partono da un cambio di mentalità: “Pensare a un futuro in cui la cultura sia un traino per l’economia, non al di sotto o alla pari di altri elementi. Creare ponti di comunicazione tra mondi culturali diversi, ebraici e non, come fa “Pagine ebraiche”. Dare voce ai giovani: appena arrivata qui, sono stata sommersa dalle lettere di chi mi proponeva idee, iniziative, eventi. E tra questi, molti universitari che hanno scritto la tesi sul Parco di Miramare. Ebbene, li convocherò presto tutti per una tavola rotonda, perché mi interessa sentire che cosa hanno da dire”.
Daniela Modonesi
(28 luglio 2017)