Shalom Italia, da Israele a Firenze
per ritrovare i sentieri della speranza

Se vi inoltrate per le strade di Pagliericcio vi potrete imbattere in Casameo, bed and breakfast aperto qualche anno fa da Bubi ed Erela Anati, di Mazkeret Batya. Si sa, gli israeliani amano l’Italia e non da ultima la Toscana. La ragione che ha portato Bubi ed Erela ad attraversare il mediterraneo è, però, un’altra. Bubi è infatti nato a Firenze e proprio nel casentino la sua famiglia, con lui bambino, è riuscita a sfuggire alle deportazioni, nascondendosi da un posto all’altro per un anno e mezzo ed infine, per un intero inverno, in un rifugio, a metà tra grotta e capanna, nel bosco. La famiglia Gnagnatti Castelnuovo fece la sua aliyah subito dopo la fine della guerra. Una volta in pensione Bubi ha sentito il bisogno di tornare in quei luoghi, mettersi sulle tracce del rifugio, di quel che ne restava. Proprio per documentare questa ricerca è nato “Shalom italia”, cortometraggio già proiettato in giro per il mondo e che continua a comparire nei programmi di diversi e importanti Festival internazionali.

Bubi, com’è nata l’idea del documentario?
Questo documentario è nato per caso. Sette anni fa Erela ed io siamo andati a cercare la famiglia che ci aveva salvati, a Villa A Sesta. Abbiamo trovato la signora Nada Seciani che ricordava benissimo la nostra presenza. Durante la sera del Seder di Pesach, in Israele, abbiamo annunciato che ciascun membro della famiglia che voleva conoscere la signora Nada era invitato da noi, nel casentino, dove nel frattempo avevamo comprato casa. Durante il seder ho poi detto: “Mi piacerebbe rintracciare i resti della capanna che ci eravamo costruiti nel bosco, durante l’ultimo inverno della guerra”. Così ho chiesto ai miei due fratelli di accompagnarmi e Tamar, regista, moglie di nostro figlio Nadav ha proposto di filmare il tutto. Così siamo partiti. Pensavo ne sarebbe uscito un filmino per i nipoti. Non sapevamo se avremmo trovato il rifugio nel bosco o no, ma l’importante era essere lì.

Come siete arrivati a Villa Sesta, come siete sfuggiti alla prima retata a Firenze?
È stato un amico di famiglia a salvarci. Una sera è venuto a casa nostra, ci ha detto: “Ho visto i vostri nomi nella lista per il treno di domani mattina all’alba”. Così siamo fuggiti, mettendo assieme quel che si riusciva. Siamo stati una notte a Firenze, da amici, poi abbiamo girato nei pressi di Siena, dove si aveva una casa. Ma i fascisti e le spie erano ovunque. Mia nonna paterna, Gina Coen, aveva affittato una camera a Villa Sesta. Si è detto: lì c’è una famiglia di cui fidarsi e si è andati. Ma la paura di essere scoperti rimaneva, così gli adulti hanno costruito un rifugio nel bosco, in un punto vicino a una sorgente e lontana da ogni sentiero, a due km da Villa Sesta. Un giorno qualcuno deve averci denunciato, i tedeschi sono arrivati nei pressi di casa, così siamo scappati al rifugio.

Non è stato semplice ritrovarlo…
No, io all’epoca avevo 4 anni. Mio fratello maggiore, Emanuele, 14. Ho alcuni ricordi, nitidi, di quel periodo. Ad esempio, mio padre che mi diceva come deviare i tedeschi ripercorrendo a ritroso i miei passi sulla neve, o il divieto di emettere anche il più piccolo urlo o pianto. Ma il luogo, ovviamente, non ricordavo dove fosse. I miei fratelli maggiori ne avevano un vago ricordo ma tutto il paesaggio attorno, nel frattempo, era cambiato.

La famiglia che vi ha aiutato non sapeva dove fosse collocato il rifugio?

No, loro non sapevano nulla, non erano mai venuti lì. Dalla famiglia Secciani, nella cantina, c’era la borsa con i gioielli della nonna. Ogni tanto il mio babbo scendeva a Villa A Sesta e diceva di vendere un braccialetto, una zuccheriera d’argento…

Con quei soldi siete riusciti a sopravvivere nel rifugio?
Non solo, mio padre era riuscito a portarsi dietro il denaro ricavato dalla vendita, a seguito delle leggi razziali del ’38, della sua attività. Con questi soldi si andava dai poderi accanto a prendere qualcosa. Si faceva il pane da noi e ogni sera si scaldava l’acqua della sorgente. La capanna era abbastanza chiusa, protetta. Non si poteva accendere il fuoco, di giorno a causa del fumo e di notte a causa della luce, così si faceva un piccolo fuoco a fine giornata, in mezzo alla capanna, poi si coprivano le braci e le si usava per scaldarsi nella notte. Eravamo quattro fratelli, il babbo Ugo e la mamma Elsa e le due nonne, Gina, di cui ti ho parlato, e Sesta Almansi.

Come avete appreso della fine della guerra?
Ogni tanto di notte si sentivano delle sparatorie. la mattina si usciva a guardare un po’, si vedeva un cadavere di un partigiano, di un tedesco. Un giorno c’era un baccano incredibile e due giorni dopo un silenzio assoluto, allora siamo usciti a guardare e ci siamo accorti che le uniformi erano di un altro colore. La nonna Sesta era malata, non si poteva alzare. Sono venuti i soldati inglesi con l’ambulanza dell’esercito a prenderla dal bosco e portarla all’ospedale a Siena, dove due o tre giorni dopo è morta. Quando il fronte è avanzato siamo tornati a Firenze.

Come è maturata la decisione dell’aliyah?
Tornati a Firenze abbiamo trovato la casa svaligiata, in pessimo stato. I vicini ci hanno detto: vedete quella finestra? Lì abita il fascista che vi ha denunciato. Il giorno dopo la vostra fuga ha sfondato la porta di casa e ha rubato tutto. I miei si son detti, i nazisti ritorneranno in Germania ma questi fascisti, rincontrarli per la via, dirgli buon giorno, non è per noi, sapendo che ci hanno tradito. Si va in Palestina e si mette su lo Stato ebraico; quello che sarà, sarà lì. Avevo 5 anni e ora ne ho 77, tutta un’altra storia.
Per diversi minuti Bubi mi racconta della sua vita in Israele e non si lascia sfuggire l’occasione per una battuta, che ha anche il sapore della speranza: sai Erela è nata a Baghdad, da dove è dovuta fuggire con la famiglia, chissà che la prossima casa non la si compri proprio lì, quando ci sarà la pace con gli arabi.

Cosimo Nicolini Coen

(Italia Ebraica agosto 2017)