“Contro il terrore, il linguaggio pesa”
La guerra contro il terrorismo è anche una questione di semantica. Almeno secondo François Heisbourg, presidente dell’International Institute for Strategic Studies di Parigi. Ospite di recente a Bruxelles della conferenza su Medio Oriente e terrorismo organizzata dall’Eipa (Europe Israel Press Association), Heisbourg ha ribadito a Pagine Ebraiche un pensiero più volte espresso in passato: “Politica e media devono cambiare linguaggio e termini quando fanno riferimento al terrorismo islamista e a Daesh”. A partire dal concetto della citata “guerra al terrorismo”. Parlare di guerra, spiega l’analista, è sbagliato perché “conferisce dignità a Daesh (termine in arabo per definire l’Isis), che vuole essere visto come uno Stato e un esercito fatto di combattenti e martiri. Ma i terroristi non sono combattenti, sono criminali”. Il presidente George W. Bush, dopo l’attentato delle Torri Gemelli del 2001, si era impegnato in prima persona a parlare di “guerra al terrorismo” ma per Heisbourg questa locuzione conferisce solo maggiore fascino e porta più affiliati a organizzazioni come Al Qaeda e Daesh. I giovani arrabbiati, isolati e senza punti di riferimento rimangono infatti facilmente ammaliati all’idea di una lotta armata e di un presunto sacrificio in nome dell’integralismo religioso. Si sentono “vittime oppresse dal colonialismo occidentale e dall’ingiustizia”, sottolineava in un intervento sul New York Times l’analista francese, e il “combattere la guerra santa contro legioni di crociati” porta un significato, seppur distorto, alle loro vite. Ed è proprio il tipo di messaggio che Daesh vuole far passare. “La violenza a cui aderiscono è una violenza moderna – scriveva su Le Monde Olivier Roy, uno dei più autorevoli analisti in materia di terrorismo e integralismo – Uccidono come gli autori delle stragi statunitensi e come Anders Breivik, a sangue freddo. In loro il nichilismo e l’orgoglio sono profondamente interconnessi. Questo individualismo forsennato si ritrova nel loro isolamento rispetto alle comunità musulmane. Pochi frequentano una moschea e i loro imam sono spesso auto-proclamati. La loro radicalizzazione si sviluppa attorno a immagini di eroi, alla violenza e alla morte, non alla sharia o all’utopia. In Siria vanno solo per combattere, nessuno di loro si integra o si interessa alla società civile. Sono più nichilisti che utopisti”. Nichilisti che colpiscono le società in cui sono cresciuti: come spiega il report realizzato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) “Jihadisti in Occidente: chi sono, perché colpiscono, che fare?”, il 73 per cento degli attentatori è composto da cittadini del paese in cui è stato eseguito l’attacco; il 14 era legalmente residente in tale paese o in visita da paesi confinanti; il 5 si compone di individui che – al momento dell’attacco – erano rifugiati o richiedenti asilo; il 6, infine, al momento dell’attacco, risiedeva illegalmente nel paese bersaglio. 51 gli attacchi portati a termine in Europa e Nord America dal giugno del 2014 – quando è stato proclamato il Califfato di Daesh – sino al giugno del 2017 e presi in considerazione dal Report curato da Lorenzo Vidino con Francesco Marone ed Eva Entenmann. “Attentati coordinati, causa di un ingente numero di vittime, sul modello di quelli avvenuti a Parigi nel novembre 2015, ma anche numerose azioni terroristiche eseguite da attori solitari – viene sottolineato nell’indagine dell’Ispi vi è dunque una significativa variazione nella tipologia di attacchi, in termini di sofisticatezza, letalità, bersagli e legami con lo Stato Islamico e altri gruppi. La variabilità è un elemento che si ravvisa altresì nei profili dei 65 attentatori identificati coinvolti nei 51 attacchi, che si caratterizzano per la propria eterogeneità, sia dal punto di vista demografico, sia da
quello operativo”. Il report poi evidenzia come gli attentati terroristici si siano concentrati in un numero relativamente limitato di Paesi, otto. “Il paese che ha subito il maggior numero di attacchi – si legge – è la Francia (17), seguito da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3), Canada (3), Danimarca (1) e Svezia (1)”. L’Italia, come è noto, è rimasta per il momento fuori da questo schema: i tentativi di organizzare attentati sono stati sventati dall’abilità delle autorità e il fenomeno della radicalizzazione islamista ha avuto meno presa rispetto ad altri paesi europei, come dimostra il numero esiguo di foreign fighters (122). “Ma i terroristi colpiranno anche il vostro Paese”, la previsione di Heisbourg, che poi ribadisce un punto chiave in questa lotta “ai terroristi criminali”: “I politici e i media non devono fare discorsi da cui emerge che l’Occidente ha scelto di cambiare il suo stile di vita a causa dei terroristi. Questo è un regalo ai fanatici e in Israele, ad esempio, non succede. In più non dobbiamo parlare di guerra perché in guerra non si organizzano grandi eventi come Euro 2016 o il Tour de France”. Dall’altra parte Heisbourg ci ricorda che un conflitto ha un inizio e una fine, e per quanto concerne il terrorismo è difficile vedere la seconda.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Agosto 2017
Grafici – fonte Ispi, Dossier Jihadista della porta accanto. Radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente, a cura di Francesco Marone, Eva Entenmann e Lorenzo Vidino
(9 agosto 2017)