Bravi e meno bravi
Recentemente il mio amico e maestro Roberto Della Rocca ha ragionato sul sempre più pressante assillo delle nostre Comunità rispetto al progressivo decremento demografico. Partendo da Devarim, 7; 7 «… non perché siete i più numerosi di tutti gli altri popoli vi ha scelto l’Eterno ma, piuttosto, perché siete i meno numerosi di tutti…», il rav ha spiegato che «la piccolezza a cui la Torà si riferisce in questo passaggio non è solo un dato numerico ma soprattutto etico e comportamentale. Si tratta di un richiamo per evitare smanie di grandezza, e di un invito a diffidare da politiche populiste che perseguono “aperture irriflesse”, per le quali si dovrebbero imbarcare quante più persone per rimpolpare le magre liste degli iscritti. Il ghiùr non può e non dovrebbe mai costituire una soluzione al problema demografico. Si rischierebbe, in tal modo, di adottare una modalità surrettizia di quel colonialismo culturale, tipico di altre religioni, e di mettere in atto forme di abuso manipolatorio di quelle coscienze alla ricerca di una identità e di una collocazione che talvolta poco ha a che fare con un adesione sostanziale a un progetto di vita ebraica». Ragionamento ineccepibile quanto condivisibile. Anche se – va detto – la complessa tematica dei ghiurìm oggi dibattuta e spesso vissuta con sofferente lacerazione non sta esattamente nei termini semplicistici del “rimpolpamento” demografico.
Parlando poi della consueta vacanza estiva organizzata dall’Ucei in Trentino (140 ebrei di varia provenienza), il rav sostiene che «il numero dei partecipanti è pressoché lo stesso di quello di piccole realtà, dove purtroppo non si è più in grado di assicurare i servizi essenziali». E specifica: «Qualcuno potrà obiettare che vi è una differenza tra una comunità estemporanea che si trova in vacanza e una comunità stanziale in cui i suoi membri devono affrontare le difficoltà e i ritmi frenetici della vita quotidiana. Si tratta, invece, di un’esperienza che costituisce una prova tangibile come per vivere un modello autentico di comunità ebraica non è necessario essere tanti e neppure tutti uguali. Si tratta piuttosto di un’offerta di un modello e di un progetto da condividere, intorno al quale si operano precise scelte, per scandire con coerenza il proprio ritmo di vita quotidiano». La conclusione è che «è sufficiente un miniàn per fare una Comunità e non è detto da nessuna parte che questo quorum di dieci membri debba necessariamente essere costituito da tutte “brave persone”. Con buona pace di coloro che, spesso, un po’ strumentalmente, accusano una certa leadership di aspirare a una Comunità fatta da “pochi ma buoni”».
Si tratta tuttavia – e se ne è discusso una infinità di volte – di stabilire chi è una “brava persona” e chi no. Perché da qui discende tutto, a cominciare dal giudizio su alcune leadership che (e non è una strumentalizzazione) aspirano, secondo me, proprio a essere composte da “pochi ma buoni”.
Stefano Jesurum, giornalista
(10 agosto 2017)