Premio a Polin, museo ebraico di Varsavia
Riconoscimento al programma didattico
L’appuntamento è per oggi pomeriggio: Barbara Kirshenblatt-Gimblett, curatrice di Polin, il Museo della storia degli ebrei polacchi aperto a Varsavia nel 2013 dove una volta si trovava il ghetto, ritirerà a Dubrovink il premio ricevuto per il suo programma didattico incentrato sulla conservazione e la promozione della cultura ebraica in Polonia. Annunciato già la scorsa primavera, il premio Europa Nostra, istituito dalla Commissione Europea nel 2002, è il principale riconoscimento destinato alle istituzioni che si dedicano a tutela, ricerca e promozione dell’eredità culturale del Vecchio Continente. Polin, fra i prescelti nella categoria “Education, Training and Awareness-Raisin” prima istituzione polacca a vincere il premio, nel 2016 Museo europeo dell’anno, è oggi fra i vincitori perché per la giuria “oltre a educare e conservare la memoria del popolo ebraico (…), ha creato un luogo sicuro per il dialogo interculturale”.
Proprio a Polin Pagine Ebraiche aveva dedicato ampio spazio un anno fa nel dossier Musei, curato da Ada Treves, che li raccontava come “Ambasciatori di cultura, luoghi di formazione, apertura e incontro”.
“I musei ebraici – scriveva nell’introduzione – hanno un ruolo sempre più importante in una società che si confronta con le minoranze con fatica sempre maggiore. Non più contenitori di oggetti pur preziosi e ricchi di storia, i grandi luoghi deputati a raccontare le tradizioni e la cultura dell’ebraismo si trasformano in vere e proprie istituzioni dedite alla formazione. Forti di principi didattici e pedagogici, capaci di grandi investimenti sul futuro, puntano sui giovani e soprattutto sui giovanissimi”. Un approfondimento di otto pagine, dedicato al progetto di un intero nuovo padiglione dedicato ai bambini presso il grande museo ebraico di Berlino reso famoso dalla struttura progettata da Liebeskind, a Polin e soprattutto al grande cantiere del Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, che era, al contrario di oggi, ancora lontano dall’apertura.
Riproponiamo qui il testo dedicato a Polin
Polin getta le basi della didattica
Il Museo dell’ebraismo polacco a Varsavia affronta la Storia
La struttura minimalista di Polin, il Museo della storia degli ebrei polacchi aperto a Varsavia nel 2013 dove una volta si trovava il ghetto, opera dei finlandesi Rainer Mahlamäki e Ilmari Lahdelma, è di grandissimo effetto e ha un ruolo non marginale nell’attrarre il flusso costante di visitatori che ne ha rapidamente decretato il successo. Con la sua entrata che ricorda una grande caverna, mura ondulate di vetro e cemento, spazi vuoti a simboleggiare il destino degli ebrei polacchi e una gola a ricordare l’attraversamento del Mar Rosso, Polin ha vinto premi internazionali di architettura, ma sono la competenza e l’energia di direttore e curatori a farne un museo speciale. Dal direttore, lo storico Dariusz Stola – invitato a Ferrara per il convegno “Una memoria per il futuro: la missione dei musei ebraici” organizzato dal Meis – che ha pubblicato una decina di volumi e numerosi articoli sulla storia degli ebrei polacchi e insegna all’Università di Varsavia, a tutto il board, le energie e l’entusiasmo di tutti, che si aggiungono a preparazione e competenza invidiabili, sono evidenti. Barbara Kirshenblatt Gimblett, per molti anni docente di Cultura ebraica dell’Europa dell’Est alla New York University, che oggi affianca il direttore ed è responsabile della collezione principale del museo, spiega che “La Polonia di oggi è una totale anomalia. Il Paese non è mai stato così omogeneo, sia dal punto di vista linguistico che etnico”. La storia polacca è di grandissima diversificazione, forse più che in qualsiasi altro paese europeo: come ricordato dal regista Andrzej Wajda in occasione dell’inaugurazione “La Polonia era un paese multinazionale. Ora quel mondo antico è nuovamente davanti a noi. E in questo momento è più necessario che mai”. E non si trattava solo di popolazione ebraica, anche se non va dimenticato che nel 1939 gli ebrei polacchi erano tre milioni e mezzo. A Varsavia si trattava del trenta per cento della popolazione. Ora i pochissimi rimasti sono prevalentemente assimilati e proprio per questo, come spiega il presidente dell’Association of the Jewish Historical Institute of Poland Piotr Wislicki, l’ebraismo non è parte della vita quotidiana per la maggior parte dei polacchi. Il Museo, nato da un’iniziativa congiunta del Ministero della Cultura, della Città di Varsavia e dell’associazione presieduta da Wislicki, racconta la storia di un Paese intero, quasi a confermare la risposta di Marek Edelman a chi gli chiedeva perché considerava necessaria e importante la progettazione e poi l’apertura di Polin: “Perché è necessario? Perché è storia della Polonia”. Fortissimo nella sua impostazione pedagogica ed educativa, soprattutto per quanto riguarda il percorso della collezione permanente, suddiviso in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti periodi storici, il museo ha ricevuto apprezzamenti da critici ed esperti di tutto il mondo. E sono sette, come le sezioni della permanente, i principi pedagogici che Barbara Kirshenblatt Gimblett ritiene fondamentali per la buona riuscita di un progetto museale, che ha individuato confrontandosi con colleghi e studiosi. “Innanzitutto va ricordato che la struttura stessa di un museo ha una valenza pedagogica forte: l’architettura parla, è fondamentale. Il visitatore vive un’esperienza in un certo senso opposta a quella che si esperisce al cinema, dove si sta fermi e la storia di svolge davanti a noi: in un museo è il nostro movimento nello spazio che ci porta a scoprire la storia che vi è narrata, sono le nostre scelte di avanzare o soffermarci in un luogo oppure in un altro che condizionano quello che poteremo a casa a fine visita. Il rapporto del corpo con lo spazio, che è poi l’essenza dell’architettura, è fondamentale. E in Polin ne abbiamo un esempio straordinario. Come penso sia straordinario il fatto che la visita si concluda in uno spazio dedicato al silenzio, e questo è il secondo principio, la visita, e la storia stessa portano a riflettere, a confrontarsi con quello che si è visto, appreso, scoperto. Il percorso deve creare una tensione costante fra la soggettività e l’oggettività, fra l’esperienza di chi c’è stato e la ricerca degli storici, perché il lavoro degli studiosi deve comunque permettere un ancoraggio emozionale”. Proprio per questo, continua, la collezione comprende molti oggetti reali, veri, che permettono una esperienza concreta e tattile, molto importante per il percorso educativo. “La materialità prova immediatamente che si tratta di vite reali, oltre a dare oggettività alle prove storiche concretizza la storia, porta a un approccio immediato alla realtà. Così come di grande impatto è l’installazione che ha più successo: abbiamo creato una sorta di torre di fotografie, che ritrae centinaia di persone che sono poi morte per mano nazista, che però quando sono state scattate le immagini non sanno cosa succederà loro. Nessuno di loro è un numero, nessuno sa che sta per morire, questa consapevolezza l’abbiamo lasciata a chi guarda. E non abbiamo mai accettato all’idea di aderire al racconto della Shoah come eroismo, come invece succede a volte in Polonia”. Un silenzio, poi aggiunge, secca: “Chi visita il museo e di fronte alla storia che vi è narrata e davanti alle immagini di coloro che sono morti non riesce a trascendere la connotazione ebraica delle vittime per estendere la propria emozione al genere umano io credo abbia un serio problema morale”.
Ada Treves twitter @ada3ves
dossier Musei, Pagine Ebraiche, settembre 2016
(27 settembre 2017)