La squadra e lo squadrismo
La foto di Anne Frank, con la maglia rosso porpora della squadra della Roma, sembra essere quasi un involontario riflesso, ancorché completamente capovolto, della fenomenale soluzione filmica adottata da Spielberg in «Schindler’s List», con il cappotto rosso acceso, quasi sanguinante, della bambina. L’accostamento nasce dal deliberato ribaltamento, da uno sconvolgimento di significati: se nel film del grande regista americano, il colore del capo di abbigliamento – l’unico in tutta la pellicola, rigorosamente in un bianco e nero che tende a diventare grigio cenere – indica l’umanità della vittima, a fronte dell’anonimato del crimine industriale (non persone ma numeri), invitando quindi lo spettatore letteralmente “a vedere per davvero” cosa sta succedendo (l’assassinio in massa di essere umani, tali in quanto non numeri ma individui in carne ed ossa), nel caso della riproduzione del volto di Anne il significato che gli si vuole attribuire è esattamente opposto: “c’è un crimine che si è consumato (noi denigratori lo sappiamo bene), il nostro sguardo non ha pietà ma solo sadico compiacimento mentre promettiamo che il destino assegnato alle vittime di allora si ripeterà presto con le vittime dei tempi a venire”. È come se dicessero ancora: “noi vediamo senza essere partecipi, se non della gratificazione che la morte altrui ci consegna, non avendo altra prospettiva che sia oltre quella offertaci dall’apologia della morte medesima”. Se Spielberg voleva individualizzare il dolore qui, invece, lo si intende di nuovo rendere seriale, anonimo, quindi infinitamente ripetibile. Come le squallide figurine. Il che è, a tutti gli effetti, un criterio nazista. «Che male c’è?», sembrano adesso chiedersi i moltiplicatori seriali dell’immagine di Anne Frank in maglietta calcistica (ora non solo più la Roma ma anche altre squadre, per una sorta di tardivo omaggio al cliché creato da Andy Warhol con Marilyn Monroe). Era uno «scherno e sfottò», in fondo. Mica altro. A volere dire: “abbiamo il senso dell’umorismo, a partire dal momento stesso in cui mentiamo senza pudore, cosa che ci capita ogni giorno”. Il loro «humour», infatti, sta nel fare le «sceneggiate» sapendo che gli altri sanno già che in realtà sono tali, ossia delle messe in scena, senza nessun pathos, nessuna empatia, nessuna identificazione. Quanto fanno ridere! Che cosa c’entri il volto di una ragazza, assassinata in un campo di concentramento nazista, con il gusto di prendere in giro l’avversario (nemico?) calcistico, ossia dove stia per davvero l’ironia, sarebbe bene che qualcuno provvedesse però a spiegarlo. Richiesta volutamente retorica, peraltro. Poiché la vera natura di quel fotomontaggio – di ciò si tratta, non solo nella tecnica ma anche per l’ispirazione, avendo proiettato e sovrapposto un elemento feticistico del presente (la maglia con i colori sociali di una squadra di calcio) su un’immagine dolce, fragile ed indifesa, nonché molto conosciuta, di una giovanissima donna del passato – non richiede nessuna chiave interpretativa particolarmente raffinata. Si rifà ad uno dei codici espressivi maggiormente diffusi tra una parte delle tifoserie calcistiche (e non solo), e come tale ben riconoscibile, che associa i sostenitori di una squadra, diversa dalla propria, ai «giudei», attribuendo a questi ultimi connotazioni mostruose o comunque disumane. Le quali, per effetto di immediata traslazione, si rifletterebbero a chi è parificato o associato ad un ebreo. A calcare il concetto ci sta, non a caso, il ricorso all’immagine di una persona che è tutto fuorché disumana e mostruosa, rivestendo semmai i panni di colei che si adoperò per fermare la barbarie con la sua sola coscienza e la penna che aveva a disposizione. A giudicare dalle reazioni tarantolate e inviperite (con rispetto parlando per gli animali in questione), oltreché falsamente ebeti, degli “schernitori”, parrebbe che, in fondo, per buona parte le sia riuscito. Ancorché in maniera postuma e, quindi, inconsapevole. Se usano quella immagine – viene da pensare – è perché sanno, a modo loro, che quel volto ha un impatto collettivo. Ne assumono il significato (una morte tanto innocente quanto ingiusta) e lo usano con calcolata volontà offensiva. È come se dicessero: “subirete quella morte, proprio perché innocente e ingiusta”. Ciò facendo, si adoperano per recitare la parte dei disinvolti iconoclasti quando, invece, sono solo dei meschini imbrattatori. Dopodiché si può aggiungere ancora qualche ulteriore considerazione. Che l’atto sia antisemitico non c’è neanche da stare a discuterne. Non su queste pagine, quanto meno. Dei dispositivi antisemiti adotta peraltro un po’ tutti gli elementi, a partire dall’associare un volto umano ad una presunta natura interiore raffigurata come mefistofelica. Le curve degli stadi abitate da una parte delle tifoserie, pur con tutti i necessari distinguo del caso, sono spesso i serbatoi delle truppe dell’intolleranza. Su questo ed altro ancora, un sociologo venuto a mancare troppo presto, Valerio Marchi, aveva scritto alcuni saggi fondamentali. Senza scadere nelle facili generalizzazioni e negli atti di accusa gratuiti. Così come Alessandro Dal Lago, in un libro intitolato «Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio», già quasi trent’anni fa indagava sui nessi tra sport, violenza, subculture ultras e spettacolarizzazione di massa. Rimangono alcuni elementi di fondo. Il primo è che ad un deliberato e consapevole abuso di immagine, ovvero al suo stravolgimento di senso civile e morale, non è buona cosa riparare rispondendo con un criterio che, al di là delle buone intenzioni, rischia di divenire una sorta di reazione simmetricamente opposta alla ributtante provocazione. Il volto iconico di Anne Frank è già stato usato ripetutamente senza che occorra, per reagire propriamente ad una oscena torsione, riproporlo quasi a modo di compensazione. In altre parole: come già si è visto con la risposta denigratoria da parte degli spalti alle lettura pubblica di passi del suo «Diario», opera fondamentale non solo sulla Shoah ma anche e soprattutto dell’adolescenza ferita e tradita dagli “adulti”, continuare a immettere nei circuiti degli stadi e delle tifoserie simboli ed emblemi delle tragedie trascorse rischia esclusivamente di rafforzare gli atteggiamenti di avversione già sussistenti. Non è un terreno, quello dei campi di calcio, e soprattutto di ciò che gli sta intorno, sul quale giocare la “nostra partita”, quella della lotta al pregiudizio, senza tenere in considerazione che i simboli in quei luoghi hanno un valore e dei significati a sé stanti. Lì dentro, la violenza evocata, ritualizzata, esibita, rivendicata è a spesso parte integrante del modo di vivere la propria militanza ultras. E da questa posizione è improbabile che i più si schiodino. Non sono (solo) ignoranti: vogliono diventare per davvero ciò che manifestano e rivendicano di potere essere, dei criminali. Il secondo elemento è che nell’età della trasformazione di ogni immagine e di qualsiasi oggetto in una sorta di icona senza storia (le vittime rischiano di subire questa traslazione che ne destituisce totalmente l’impatto morale della morte), il volto di Anne Frank va tutelato, evitando che sia oggetto di inflazioni d’uso d’ogni genere e tipo. Non è tanto una questione di quantità quanto di qualità. Quella che noi conferiamo ai suoi tratti umani. Che perdurano anche dopo il suo assassinio, facendola vivere tra di noi. A modo loro, quanti ne hanno riprodotto il volto in maniera così scellerata, sanno che l’unico modo per impedire ciò sia l’ucciderla di nuovo in effigie, deumanizzandone i tratti. Siamo davanti a dei nuovi assassini, quella della memoria. I quali si adoperano in tale senso non tanto negando l’evidenza del passato quanto assumendola con un significato completamente stravolto, tale poiché letteralmente disumanizzato. La strategia di risposta alle falangi di questa barbarie va ancora pensata. Ma deve prescindere dal ricorso a ciò che per noi è quanto ha a che fare con qualcosa di prezioso, insindacabile, irripetibile, ossia la vita stessa. Il volto di Anne non rimanda alla morte ma al diritto all’esistenza. Come tale, non dobbiamo permettere che se ne approprino quanti tifano per una sola cosa, ossia la distruzione del principio di umanità. Meglio tenerlo fuori dal campo di gioco non delle squadre bensì degli squadristi.
Claudio Vercelli