I Testimoni e la strada di casa

Screen Shot 2017-11-01 at 10.55.04Colma una lacuna significativa La strada di casa (ed. Viella), documentato saggio di Elisa Guida dedicato al ritorno dei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti nelle loro città e nei loro paesi d’origine. Chi si occupò di loro, e che cosa significò tornare a casa dopo essere sopravvissuti all’esperienza più drammatica del Novecento? Si sviluppa a partire da questi interrrogativi il lavoro di Guida, dottore di ricerca all’Università degli Studi della Tuscia. Un lavoro ricco di spunti per addetti ai lavori e non solo, come hanno convenuto i relatori della presentazione organizzata alla Camera dei Deputati su iniziativa dell’Associazione Nazionale Ex Deportati e in particolare di Grazia Di Veroli. A confronto con l’autrice il Testimone Piero Terracina, il direttore del Cdec Gadi Luzzatto Voghera, i docenti universitari Mario Toscano e Leonardo Rapone, l’onorevole Marco Miccoli. In sala anche i Testimoni Edith Bruck e Joseph Varon.
Sottolinea Guida: “Nella memorialistica il momento della liberazione dai campi, trattato in poche battute, segna in genere la fine del racconto. Solamente pochi testimoni, e per lo più in memorie di scrittura recente, hanno aperto la riflessione al dramma del ritorno a casa e alla normalità”.
C’è dunque un vuoto non irrilevante, ed è là che questo saggio si inserisce con molti elementi nuovi. Cinque i capitoli in cui è suddiviso. Nel primo, Via dall’Italia, l’obiettivo è quello di dare al lettore “le coordinate necessarie per l’iniziare a misurarsi con la vastita e l’eterogeneità della massa dei reduci da prigionia che, nel dopoguerra, tornavano in patria”. Nel secondo si inquadra invece l’esperienza dei superstiti della Shoah in una visione più ampia, “comprendente tutti gli italiani reduci da prigionia”. Mentre il terzo, dalle ‘marce della morte’ fatali per migliaia di prigionieri ci porta fino alla conclusione dell’incubo: la liberazione dei lager. Il quarto approfondisce la storia dei rimpatri di Auschwitz, lager scelto come ‘case study’ perché, spiega la ricercatrice, è quello dove si conta “la più alta percentuale di ebrei italiani sopravvissuti alla Shoah” e perché permette di seguire le vicende dei sopravvissuti “in tempo di guerra e in tempo di pace”. Infatti, ricorda Guida, l’Armata Rossa vi entrò ben tre mesi prima della fine del conflitto in Europa, ma la maggior parte dei superstiti tornò in Italia solamente alcuni mesi dopo la resa incondizionata della Germania. L’ultimo capitolo infine, efficacemente intitolato ‘Il rimpatrio come fatto esistenziale’, è dedicato “al significato profondo, storico e morale del viaggio”. Un’esperienza che, viene chiarito, non rappresentò affatto la fine dell’offesa, ma piuttosto una tregua tra due guerre. Quella che aveva sconvolto il mondo e volgeva al termine, e quella interiore affrontata dai salvati per tornare a loro stessi. Quella purtroppo, osserva l’autrice, “era appena incominciata”.
E più si recuperavano razionalità e salute, più l’angoscia si faceva profonda. Ha raccontato Terracina all’autrice: “Più stavo meglio e mi riprendevo fisicamente, più ricominciavo a ragionare e a pensare. Pensavo ai miei genitori, a mio nonno e a mio zio che ero certo non avrei più rivisto. Avevo poche speranze anche di riabbracciare mia sorella Anna, perché l’avevo vista ad Auschwitz, stava male e aveva iniziato a perdere i denti. Dei miei fratelli sapevo che erano partiti con le marce della morte. Temevo per la loro sorte e piangevo. Piangevo a dirotto”.

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(1 novembre 2017)