Uscire d’obbligo
Letture dantesche, approfondimenti tematici su Napoleone Bonaparte, corso di economia civile, educazione alla salute, educazione alla legalità, educazione finanziaria, due o tre conferenze, vari spettacoli teatrali e proiezioni di film dedicate alle scuole, un po’ di concorsi, un po’ di corsi di formazione per insegnanti, oltre naturalmente ai nostri laboratori e alle nostre attività normali: è quanto contenuto nella prima schermata della posta ricevuta al mio indirizzo mail di scuola, che più o meno corrisponde alle mail arrivate nell’ultima settimana. E non è una delle settimane peggiori, anzi, forse è la prima di calma relativa dopo il turbinoso inizio dell’anno scolastico.
A leggerle tutte sul serio non rimarrebbe molto tempo per fare altre cose come correggere compiti o preparare lezioni. E naturalmente non c’è nessuno che in assenza di risposte positive non si senta in diritto di offendersi e di andare in giro a pontificare sulla scarsa sensibilità degli insegnanti su questo o quell’altro tema. Inutile dire che per fare tutto ciò che viene proposto non basterebbero tutte le ore di una decina di anni scolastici. Eppure in continuazione politici, opinionisti e intellettuali di vario genere passano il tempo a scandalizzarsi per cose di cui non si parla nelle scuole e a proporre di aggiungere educazioni varie.
A volte mi domando se non sarebbe opportuna una sorta di rivoluzione copernicana. Siamo cresciuti con l’idea di una scuola che occupa, tra lezioni e compiti, tutto il tempo dei ragazzi tranne quello occasionalmente dedicato ad altro. Ora a quanto pare ci si rende conto che l’altro, il mondo fuori dalla scuola, ha troppe esigenze (spesso più che giustificate) per accontentarsi di inserimenti occasionali. E allora, forse, bisognerebbe ragionare nei termini di una scuola (nel senso di materie, lezioni e compiti) che occupi un tempo limitato, il minimo indispensabile per raggiungere determinati obiettivi, e per il resto lasci i ragazzi liberi di aprirsi al mondo secondo meccanismi più flessibili. Può sembrare una provocazione ma non lo è, anzi, sarebbe forse l’unico modo per restituire alla scuola dignità e credibilità.
Pensiamo alla logica ebraica dell’“uscire d’obbligo”: basta una quantità di pane delle dimensioni di un’oliva (anche se per la verità un po’ grandicella) per definirlo un pasto, basta una sukkà delle dimensioni di una cabina elettorale (forse anche meno) per assolvere al precetto di abitare nelle capanne. In realtà chi mangia solo un’oliva di pane e chi si accontenta della mini-sukkà? Soltanto chi davvero non ha la possibilità di fare diversamente. L’idea del minimo indispensabile non toglie valore alle mitzvot, anzi, le nobilita: trasmette l’idea di un precetto così importante che anche in condizioni difficili bisogna trovare un modo per osservarlo.
Lo stesso, a mio parere, accadrebbe con la scuola. Se anziché parlare genericamente di un tot di ore alla settimana da settembre a giugno si fissasse un numero finito di moduli di 10-20-30 ore, o magari anche di lezioni singole su argomenti fondamentali, quei moduli e quelle lezioni sarebbero percepiti come qualcosa di prezioso e imperdibile, da tutelare ad ogni costo.
Il minimo indispensabile spesso è ben di più del massimo possibile.
Anna Segre, insegnante
(10 novembre 2017)