JCiak – Torino Film Festival,
triplice vittoria per Israele
“Ho una propensione per le commedie romantiche eccentriche, sebbene detesti le storie d’amore e sia terribilmente cinico”. Si racconta così Ram Nehari, il regista israeliano che con il suo primo lungometraggio ha vinto il premio maggiore al Torino Film Festival. E il suo “Al tishkechi oti”, o “Don’t forget me”, coproduzione di Israele, Francia e Germania, ha vinto anche il premio alla miglior attrice, Moon Shavit – che lo condivide ex aequo con la britannica Emily Beecham, protagonista di “Daphne” di Peter Mackie Burns – e al miglior attore, Nitai Gvirtz.
E non solo: al film sono stati assegnati anche il Premio Avanti e la menzione speciale della giuria Interfedi, promossa dalla Chiesa Valdese e dalla Comunità ebraica di Torino, con il patrocinio del Comitato Interfedi della Città di Torino, composta da Carlotta Monge, Anna Segre e Beppe Valperga perché “sottolinea magistralmente l’incontro tra due situazioni di disagio, con un’ottima interpretazione”. Un successo che arriva dopo un apparente calo della cinematografia israeliana, che dopo anni di successi pareva aver perso un po’ del suo smalto: due soli cortometraggi presenti a Locarno – di cui uno premiato – e sette film molto interessanti ma non premiati a Venezia, poca cosa rispetto alle scorse edizioni.
Nonostante “Al tishkechi oti” sia il suo primo lungometraggio, Ram Nehari non è un esordiente: ha studiato cinema e televisione alla Tel Aviv University, esordendo nel1998 con il cortometraggio “One Out of Three”, a cui sono seguite le serie televisive “Kochav Zore’ach Me’al HaLev” nel 2001 e “Kol Boker” e “Ahava Ze Koev” nel 2004, prima di “Ima’lle” nel 2005 e “Makimi” nel 2013. Ha seguito e diretto per anni cortometraggi realizzati da persone con problemi mentali, e racconta che anche da questa esperienza ha tratto spunti e materiali per il lungometraggio vincitore, un film che “Contiene tutte le mie ossessioni, ciò che mi dà fastidio e ciò che mi fa ridere. Penso sia importante che il film risulti divertente: far ridere le persone è la mia battaglia per il rispetto di sé, perché cercare di far commuovere il pubblico è un po’ come invocare la loro pietà».
La storia, che ha convinto la giuria del TFF – composta dal regista, sceneggiatore e produttore cileno Pablo Larraín, Petros Markaris, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e traduttore greco nato a Istanbul, insieme allo scozzese Gillies MacKinnon e all’argentino Santiago Mitre, insieme a Isabella Ragonese – racconta la storia di due giovani che cercano di uscire da un disagio esistenziale profondo. Le storia che racconta Nehari avrebbe potuto ambientare ovunque, sganciata come è dalle specificità della società e della storia israeliana, e prende le mosse dalle difficoltà di Tom, che combatte con l’anoressia reagisce in maniera negativa a quella che parrebbe essere una buona notizia: quando il medico che la segue, in una clinica di Gerusalemme, le spiega che il ritorno del ciclo mestruale è un buon segno e significa che le sue condizioni stanno migliorando, sprofonda nel panico. L’idea di riacquistare i chili perduti la spaventa a morte e solo l’incontro con Neil, un musicista che ha qualche problema di socializzazione le permette di guardare avanti. La voglia comune di rifuggire da tutto ciò che viene ritenuto socialmente accettabile li unisce, e fra il sogno di diventare top model e l’idea di scappare a Berlino si inserisce anche il personaggio della madre di lei, la cui reazione all’idea della partenza è così forte ed eccessiva da rendere ancora più chiara l’idea intorno a cui gira tutta la storia, mostrando come non sia così netto il confine tra normalità e malattia.
Ada Treves twitter @ada3ves
(3 dicembre 2017)