Notizie dal festival
La tripla vittoria (miglior film, miglior attore e migliore attrice) del film israeliano Al tishkechi oti / Don’t forget me di Ram Nehari al Torino Film Festival è una bellissima notizia. Ancora più bella, a mio parere, perché il film, pur raccontando storie di disagio, dà conto di un Paese assolutamente normale: la storia d’amore tra l’anoressica Tom e Neil, suonatore di tuba con qualche problema di socializzazione, potrebbe essere ambientata in qualunque altro posto sulla faccia della terra (o per lo meno del mondo occidentale). “Pericoloso, originale, difficile da fare” lo ha definito il presidente della giuria Pablo Larraín nell’assegnare il premio. Un giudizio sul film in sé, indipendentemente dal luogo in cui è ambientato. Temo, però, che dal pubblico e dalla critica sia stato percepito diversamente; la Stampa, per esempio, parlava di “un contesto sociale che non ha ancora elaborato i suoi traumi”. In effetti c’è un fugace riferimento alla Shoah, nelle preoccupazioni della madre di Tom all’idea che la figlia vada a Berlino, ma a mio parere si tratta di discorsi irrazionali, e anche involontariamente comici, inseriti nel film per mostrare come sia labile il confine tra “malattia” e “normalità”. Quando si riuscirà a vedere un film israeliano senza volerci leggere dentro per forza l’ideologia, la storia o l’identità dell’intero Stato di Israele?
Al tishkechi oti ha avuto anche una menzione speciale dalla giuria (di cui facevo parte) del Premio Interfedi, premio istituito nel 2013 dalla Chiesa Valdese e dalla Comunità ebraica di Torino, con il patrocinio del Comitato Interfedi della Città di Torino, che “mira a richiamare l’attenzione su film che contribuiscono a dar voce a tutti i tipi di minoranze, promuovendone il rispetto, il riconoscimento dei diritti, l’integrazione, il superamento delle discriminazioni, e che al contempo affermano i valori della laicità, della cultura della tolleranza, del rispetto dell’autonomia, della libertà e della responsabilità individuale.” Il Premio Interfedi vero è proprio è andato al film francese À Voix Haute / Speak-Up! di Stéphane De Freitas, che ha vinto anche il premio del pubblico, su una classe multietnica che si prepara al concorso Eloquentia dell’università di Saint-Denis. “Dobbiamo imparare a vivere insieme e a parlarci tra comunità religiose diverse” ha dichiarato il regista nella cerimonia di premiazione. E nel film non manca un riferimento al giovane Ilan Halimi, ucciso nel 2006 per la sola colpa di essere ebreo. In quella classe multietnica, però, mancano gli ebrei in carne ed ossa: un’assenza che ci ricorda una volta di più, se ce ne fosse bisogno, la fuga degli ebrei dalle periferie parigine a causa dell’antisemitismo. Non è un difetto del film (che è in sostanza un documentario), ma forse un tema su cui vale la pena di riflettere.
La convivenza tra religioni nella sua quotidianità si vede nel villaggio africano mostrato nella scena iniziale (anche in questo caso di fatto un documentario) di Balon di Pasquale Scimeca. Presto, purtroppo, questa normalità fatta di gesti quotidiani sarà distrutta da un attacco di predoni e i due fratelli Ysoké di 15 anni e Amin di 10, unici superstiti del loro nucleo famigliare, saranno costretti a camminare verso nord, attraversando fiumi, foreste, pianure fino al deserto, in cerca di una terra promessa (la Svezia, indicata dal nonno) che per loro è solo un nome. Grazie anche all’aiuto di due archeologi italiani giungeranno in Libia, dove saranno catturati e tenuti in un campo di prigionia. La storia termina su un barcone, lì dove nella nostra percezione le storie iniziano; in questo modo ci ricorda da dove vengono e cos’hanno affrontato quei profughi che qualcuno si ostina a descrivere come privilegiati o pericolosi invasori.
Anna Segre
(8 dicembre 2017)