Dossier Musei – Lo studio europeo descrive un panorama complesso
Obiettivi ambiziosi, portati avanti con determinazione da Brigitte Sion e concretizzatisi nel primo Rapporto sui musei ebraici in Europa, commissionato dalla The Rothschild Foundation (Hanadiv) Europe. Un questionario inviato a centoventi istituzioni, in trentaquattro paesi, composto di domande che vertevano su undici argomenti: dall’organizzazione alle collezioni, dalle mostre, sia temporanee che permanenti, fino ai servizi offerti ai visitatori, dal marketing alle questioni economiche. Poche le risposte, a dire la verità, rispetto alle aspettative: solo sessantaquattro organizzazioni, poco più del cinquanta per cento, hanno risposto, ma il quadro è comunque importante, e interessante, e racconta una realtà in cui l’unico dato coerente è la profonda diversificazione delle istituzioni museali. Si va dal grande museo nazionale progettato da un grande architetto, inserito nei percorsi turistici cittadini all’antica sinagoga allestita con qualche pannello aperta poche ore al mese grazie al lavoro di qualche volontario. E le differenze riguardano praticamente tutti gli aspetti: ci sono istituzioni che hanno un obiettivo prettamente conservativo, c’è chi ha in intero dipartimento dedicato alla didattica, che riceve solo visitatori stranieri e chi, invece, ha prevalentemente un pubblico locale. In questa situazione riuscire a tratteggiare un quadro comprensivo che possa descrivere la realtà dei musei ebraici non è stato facile, ma – come tiene a sottolineare l’autrice del report – è forse stato questo uno degli aspetti più interessanti. Riuscire a identificare i problemi più pressanti, le sfide e le necessità che le istituzioni museali si trovano ad affrontare ogni giorno, capirne missione, filosofia e metodologia, e comprendere che ruolo abbiano o possano avere nel panorama culturale e anche didattico del continente. Altro argomento molto rilevante per la Fondazione, il livello di professionalizzazione: dalla formazione del personale alle competenze relative alla conservazione e alla gestione delle collezioni, fino alla capacità di comunicare, e di collaborare con le altre istituzioni presenti sul territorio, o facenti parte degli stessi network. Conoscere la realtà è necessario e, come hanno spiegato diversi responsabili delle istituzioni coinvolte, il Report elaborato da Brigitte Sion è uno strumento utilissimo e fondamentale per poter interpretare il panorama europeo e per poter ragionare con maggiore consapevolezza sui programmi e sulle sfide da affrontare nei prossimi cinque o dieci anni. Una informazione chiave per la corretta interpretazione del report è fornita in apertura dall’autrice, che nel raccontare come ha strutturato l’elenco di istituzioni da contattare spiega che il primo elenco è stato fornito dalla Association of European Jewish Museums (AEJM), i cui criteri, però, le sono parsi troppo stringenti: sono diversi i musei che non appartengono all’AEJM e che sono poi stati inclusi nel survey, mentre non sono stati contattati i musei né i memoriali della Shoah, per i loro scopi e obiettivi naturalmente differenti e difficilmente ricomprensibili in un report che vuole essere uno strumento operativo per un target definito. La descrizione della realtà, in una Europa considerata secondo i suoi confini geografici, si concentra su quattro temi principali che, ben al di là dei numeri, sono indicativi di tendenze comuni, al di là delle differenze strutturali. I musei, innanzitutto, si discostano sempre più dal loro ruolo originario di contenitori di oggetti, per trasformarsi in veri e propri hub culturali, che possono riunire nello stesso luogo centri studi, biblioteche, auditorium e caffetterie, che convivono con programmi culturali e con le esposizioni vere e proprie, che sono però spesso solo una delle offerte. Grande ricchezza di programmi, in alcuni casi, un po’ di confusione, a volte, e anche in questo campo un panorama molto variegato che potrebbe solo giovarsi di un aumento della collaborazione fra istituzioni. Ed è proprio questo uno dei punti deboli e insieme uno dei desideri segnalati con più forza dai rispondenti: il desiderio di riuscire a collaborare di più e meglio, per condividere buone pratiche, per imparare dagli altri, per scambiarsi conoscenza e competenze, ma anche per non sentirsi isolati, rispondono gli enti più piccoli.
Ci sono collaborazioni, anche con istituzioni non ebraiche, ma sono poche, e solo il venti per cento circa delle risposte può citare un progetto condiviso portato a termine negli ultimi tre anni. Anche lo scambio di mostre temporanee pare essere difficoltoso, nonostante la sua evidente utilità, e il fatto che moltissimi vorrebbero più scambi di questo genere si scontra spesso con questioni organizzative e logistiche, più che con la volontà o con i limiti economici. Ed è poi giusto, si chiedono i molti, che lo studio della minoranza ebraica diventi paradigma per lo studio di altre minoranze? Ai musei ebraici viene chiesto di impegnarsi in un dialogo con la società contemporanea che è complesso, e delicato, e da cui ci si aspetta spesso un aiuto a comprendere e interpretare la modernità. “In un mondo post-nazionale e trans-culturale – scrive Sion – con gli ebrei che sono il popolo transnazionle per eccellenza, i musei ebraici stanno iniziando a riflettere sulla propria missione in una prospettiva più universalistica, adattando le proprie esposizioni e offrendo programmi che mostrano una reinterpretazione dell’esperienza ebraica attraverso le lenti delle migrazioni e della diversità culturale”. Per supportare la comprensione interculturale, promuovere il ragionamento pubblico sulla tolleranza e sul rispetto nei confronti di persone di tutte le religioni, etnie e culture. Non un obiettivo facile, neppure per coloro che hanno deciso di avventurarsi lungo questo sentiero, che va comunque coniugato con una serie di difficoltà molto concrete, che non tutte le istituzioni sono in grado di affrontare: va ricordato che senza finanziamenti, personale, preparazione specializzata e supporto pubblico per molti musei ebraici la strada è difficile, se non segnata.
Un panorama variegato e vivace
“Ci sono più di cento e trenta musei ebraici in Europa, dal Portogallo all’Ucraina, dalla Norvegia alla Grecia. Alcuni sono stati progettati da archistar, come i musei di Berlino e di Copenhagen – entrambi di Daniel Libeskind – altri sono stabili ristrutturati, come la sinagoga di Cavaillon, in Francia, o l’ex mikveh di Rotenburg an der Fulda, in Germania. Alcune collezioni possono contare su più di trenta mila oggetti, come a Londra o Amsterdam, altri hanno un solo artefatto, lo stabile in cui hanno sede, come le sinagoghe di Maribor, in Slovenia, o di Jicin, nella Repubblica Ceca. Alcuni musei devono lottare per raccogliere finanziamenti, e potrebbero non riuscire a sopravvivere, mentre ci sono nuovi musei che aprono ogni anno. (…) Si tratta certamente di un panorama vasto e molto attivo, ma ci sono anche notevoli discrepanze, che sollevano alcune fondamentali domande: I musei ebraici sono rilevanti, nel XXI secolo? Se è così, quale è il loro scopo, e che a che tipo di pubblico si rivolgono?”. Sono parole di Brigitte Sion, scrittrice, studiosa, docente, ricercatrice che dal 2016 è “Museum program officer” presso la Rothschild Foundation (Hanadiv) Europe. Un dottorato alla New York University e diversi Master: in francese (alla Penn), in giornalismo (alla Columbia) e in Studi ebraici presso il Hebrew Union College, tiene conferenze su temi che vanno da memoria pubblica e pratiche commemorative a Shoah e genocidio, con particolare attenzione all’arte rubata, è autrice o coautrice di sei libri e di numerosissimi articoli. Parlare con lei è essere travolti da un vulcano, capace di coniugare rigore inflessibile a passione ed entusiasmo. “È stato difficile, e molto bello. Interessante e complesso: la realtà dei musei ebraici europei è così complessa e diversificata che è stata una bella sfida. Trovare il modo per rappresentare realtà così lontane, raccogliere le informazioni che le istituzioni, in maniera del tutto volontaria, hanno voluto dare. Cercare di capire perché in tanti non hanno risposto, e allo stesso rendersi conto che le differenze sono tali da rendere una classificazione praticamente impossibile”. I questionari, distribuiti alla fine del 2015 e raccolti nel 2016, sono stati compilati da alcune decine di musei, di trenta paesi diversi, corrispondenti a poco più del cinquanta per cento delle istituzioni contattate. Un successo, in realtà, soprattutto considerando che si tratta del primo report di questo genere: la realtà dei musei ebraici europei non era mai stata raccontata in maniera strutturata, e nonostante le difficoltà una cosa è chiara: l’unica cosa costante è la diversità, anche in questa specifica area della cultura e delle tradizioni ebraiche.
“Nonostante le differenze evidenti una cosa è chiara a tutti: per essere rilevanti, per mantenere o ottenere visibilità, e per essere economicamente sostenibili i musei ebraici (come tutti i musei, a dire il vero) devono essere dinamici, e non solo istituzioni legate al passato. Non possono essere solo una vetrina di oggetti e un centro di ricerca per gli studiosi, hanno un ruolo cruciale nell’insegnamento di cosa sia la minoranza ebraica, quali la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni. E non è un caso che l’iscrizione all’Aejm sia stata uno dei primi atti del Meis. Per guardare avanti insieme. Il report ora è sulle scrivanie di molti direttori di musei, che lo considerano uno strumento di lavoro indispensabile, così come è importantissima la partecipazione alle conferenze annuali. In attesa della seconda puntata dello studio, sperando che a occuparsene, se si farà, sia ancora una studiosa come Brigitte Sion.
Ada Treves twitter @ada3ves
dal dossier Musei – Pagine Ebraiche dicembre 2017
(11 dicembre 2017)