melamed, cittadinanza – L’intollerabile acquiescenza verso le classi ghetto
“Gandhi non dava ragione a uno ma a due”. L’affermazione è di Emilia e l’ha proposta mercoledì, mentre in quinta elementare stavamo raccogliendo frasi per costruire un testo collettivo sul profeta della nonviolenza, a cui avevamo dedicato due settimane di ricerche.
Può apparire esagerato, forse, ma credo che avere la capacità di mettere radicalmente in discussione la didattica abbia a che vedere con il futuro del nostro paese. Si tratta di capire, infatti, quando e come si abbia il coraggio di “dare ragione a due”, cioè di accettare che su questioni delicate e profonde come la religione o il nostro modo di porci nei confronti della vita si possa tollerare la compresenza di punti di vista diversi e, ancor più, provare a crescere alimentandoci delle tante diversità che ci circondano.
La democrazia ha il suo fondamento nel far dialogare e tenere insieme opinioni distinte, ma il problema è che non ci può essere vera democrazia se non c’è pari ascolto e dignità per tutti.
E allora dobbiamo domandarci, con lucidità e spietatezza, quanta democrazia reale abiti le nostre scuole quando ragazze e ragazzi vengono separati in sezioni che riconfigurano, dentro l’edificio scolastico, le gerarchie sociali che tanto peso hanno fuori da quelle mura.
Sto parlando di una questione molto concreta di cui si tende a tacere, cioè del fatto che in troppe scuole di ogni ordine e grado ci sono sezioni in cui vengono iscritti figli di genitori che tengono molto alla formazione, e hanno modo di far valere e prevalere le loro ragioni, e in altre e sezioni vengano relegati allievi che, agli occhi di alcuni insegnanti, appaiono più problematici perché stranieri o portatori di disabilità o di altre forme di disagio. Di fatto sono vere e proprie classi ghetto, presenti soprattutto al sud e nei quartieri disagiati delle grandi città. Recenti dati raccolti dall’Invalsi ci dicono che quasi il 40% delle scuole pratica queste intollerabili discriminazioni e nessuno sembra far nulla.
Quando a luglio denunciai con una lettera aperta a Valeria Fedeli questo stato di cose, comprovate da un ente che lavora per il Miur, la Ministra rispose in modo sollecito, riconoscendo la gravità della situazione, ma non si ha notizia che poi abbia preso i provvedimenti necessari per ostacolare tale pratica incostituzionale.
Si tratta di una questione complessa all’origine della quale ci sono responsabilità molteplici. Da un lato alcuni professori, spesso nella scuola da più anni, cercano di “scegliere” i loro alunni, dall’altro alcuni genitori pensano sia loro diritto difendere il loro privilegio sociale non mescolando i loro figli con chi ai loro occhi vale meno. In mezzo dirigenti scolastici poco coerenti ed audaci, si rendono complici di questa palese ingiustizia, giustificando il loro operare col solito motivo che si è sempre fatto così.
La scuola italiana cova al suo interno spinte totalmente divergenti. Da un lato è stata certamente il luogo pubblico di maggiore integrazione dei figli degli immigrati e, prima in Europa, da 40 anni accoglie alunni portatori di disabilità, dall’altro tollera al suo interno situazioni in cui vengono messe in atto discriminazioni inaccettabili.
Dietro questo malcostume antidemocratico c’è tuttavia un nodo culturale sul quale chiunque abbia a cuore l’innovazione didattica è bene rifletta. Siamo certi che lavorare in classi omogenee migliori la costruzione di quelle competenze di cittadinanza che siamo chiamati a costruire con ragazze e ragazzi? Dati internazionali ci dicono che abitare per anni lo stesso spazio con ragazzi portatori di disabilità sviluppa notevolmente le capacità sociali. Non solo, quando insegnanti capaci sanno organizzare un contesto realmente inclusivo, anche sul terreno degli apprendimenti si può trarre grande giovamento dalla presenza in classe di chi incontra difficoltà di varia natura. E allora perché una classe che raccolga allievi con provenienze etniche e linguistiche varie e difformi non potrebbe costituire un terreno propizio alla costruzione delle conoscenze? Certo, la composizione disomogenea che caratterizza tanta parte delle nostre classi richiede, da parte di noi insegnanti, sforzo, creatività e una grande capacità di metterci in gioco. Ma non è proprio questa la sfida culturale più rilevante del nostro tempo?
Franco Lorenzoni per Origami, La Stampa
(Nell’immagine il tavolo di lavoro dei bambini di Giove, con le immagini della guerra e della pace in due pitture di Picasso.)
(22 dicembre 2017)