melamed – Tutto sulla riforma della cittadinanza

Il ruolo degli emigrati nella cittadinanza
La legge in vigore in Italia è stata approvata nel 1992 e considera cittadino italiano chiunque abbia almeno un genitore italiano, senza distinzioni tra chi nasce in Italia e chi nasce all’estero. Si fonda quindi principalmente sullo ius sanguinis (diritto di sangue), che fa derivare la cittadinanza da quella dei genitori e degli antenati. I cittadini stranieri residenti in Italia possono diventare italiani per naturalizzazione o per matrimonio. La docente di sociologia politica Giovanna Zincone nel suo saggio Citizen policy making spiega che “quando l’Italia è stata unificata nel 1861, la sua prima legge sulla cittadinanza ha privilegiato il principio secondo cui l’appartenenza a una società doveva dipendere dall’appartenenza a una nazione, una comunità di persone che hanno gli stessi antenati”. La prima legge sulla cittadinanza del paese appena unificato fu mutuata dal codice napoleonico, come quasi in tutti i paesi europei. Zincone ricorda che – come tutti i paesi con un alto numero di emigrati – l’Italia ha favorito la trasmissione della cittadinanza “con il sangue”, per mantenere un legame con i tanti emigrati italiani che vivevano e lavoravano all’estero e contribuivano allo sviluppo e all’arricchimento del paese attraverso le rimesse. Invece Roma non è riuscita ad approvare delle misure che estendano la cittadinanza agli stranieri che risiedono sul territorio italiano da molti anni e ai loro figli nati e cresciuti in Italia, anche se è dalla fine degli anni novanta che si parla di ius soli (diritto di cittadinanza legato al luogo di nascita). C’è un divario tra i diritti politici dei discendenti degli italiani all’estero e quelli degli immigrati che risiedono in Italia La legge numero 91 del 1992 ha rafforzato il principio dello ius sanguinis ed è nata proprio per favorire gli italiani all’estero, cioè la discendenza degli emigrati italiani, mentre ha introdotto tempi più lunghi per la naturalizzazione dei cittadini di nazionalità straniera. La riforma ha infatti ridotto a tre anni (da cinque) il tempo in cui devono risiedere in Italia i discendenti degli italiani che vogliono ottenere la cittadinanza e gli ha permesso di mantenere il doppio passaporto, mentre i cittadini di paesi non europei devono risiedere qui almeno dieci anni (prima erano cinque). La legge del 1992, inoltre, ha reso più difficile per i figli dei cittadini stranieri acquisire la cittadinanza italiana, perché ha introdotto l’obbligo di residenza continuativa e legale nel paese fino al compimento del diciottesimo anno di età. Con la riforma del 1992, il matrimonio è diventato uno dei principali canali di accesso alla cittadinanza: per chiederla bastava essere sposati da appena sei mesi con un italiano o un’italiana. Nel 2009 però questa parte della legge è stata cambiata, il governo Berlusconi ha inserito nel Pacchetto sicurezza una norma che ha innalzato il termine a due anni.Come spiega Giovanna Zincone, la riforma della cittadinanza del 1992 ha rafforzato il ruolo politico degli italiani all’estero. “La lobby degli italiani all’estero ha un ruolo decisivo nella politica nazionale, possono scegliere i loro rappresentanti ed eleggono sei senatori e dodici deputati”, scrive Zincone. Per queste ragioni storiche, si è creato un divario tra i diritti politici riconosciuti ai discendenti degli italiani all’estero e quelli che sono negati agli immigrati che risiedono in Italia da molto tempo.

La lunga storia dello ius soli
La prima proposta di riforma della legge sulla cittadinanza per gli stranieri residenti è stata presentata dalla ministra degli affari sociali Livia Turco nel 1999. In particolare la proposta prevedeva che i figli nati in Italia di cittadini stranieri potessero chiedere la cittadinanza all’età di cinque anni, dopo aver vissuto legalmente e continuativamente nel paese. I genitori avrebbero dovuto dimostrare di essere residenti in Italia da almeno cinque anni. “L’idea era quella di evitare che i bambini che cominciavano il ciclo scolastico obbligatorio fossero trattati come stranieri e avessero meno diritti rispetto ai bambini nati in Italia da genitori italiani”, ricorda Zincone nel suo saggio Citizen policy making. Il progetto di riforma della cittadinanza del 1999 fallì, ma alcuni tratti della proposta di legge rimasero nelle proposte successive. Nel 2006, l’allora ministro dell’interno Giuliano Amato propose una nuova riforma della cittadinanza, che fu decisamente ostacolata dai partiti d’opposizione anche se un sondaggio aveva evidenziato che la maggior parte degli italiani era d’accordo con la riforma. “C’è da notare come l’opposizione ebbe più spazio in televisione e sui mezzi d’informazione che nella commissione per gli affari costituzionali che stava esaminando la riforma. Questa è una classica Teoria della scelta pubblica di Buchanan & Tullock: i politici ottengono più nella contrattazione privata che in quella pubblica e quello che avviene nelle commissioni ha meno visibilità dei dibattiti che si svolgono in televisione”, spiega Zincone. Ognuno è figlio della cultura dei suoi genitori, ma soprattutto del paese in cui ha frequentato la scuola.  Nel 2008 la vittoria della coalizione di centrodestra, formata da Forza Italia e dalla Lega nord, e la scelta di spostare le politiche migratorie sul piano dell’ordine pubblico impressero una battuta d’arresto al dibattito sulla riforma. Nel 2009 i deputati Andrea Sarubbi (Pd) e Fabio Granata (Popolo della libertà) proposero una riforma bipartisan della cittadinanza, che però si fermò nel 2010 per il timore del Pdl di esporsi su questo tema all’inizio della campagna elettorale per le regionali. La proposta di Granata e Sarubbi diceva, in sostanza, che un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri poteva ottenere la cittadinanza italiana a diciott’anni, se risiedeva in Italia da almeno cinque anni, superando un test di “integrazione civica e linguistica” e in seguito a un giuramento sulla costituzione. Inoltre sarebbero potuti diventare italiani i figli di immigrati residenti in Italia da almeno cinque anni e quelli che avevano completato un ciclo di studi. Dopo la bocciatura della legge bipartisan, nel 2011, una ventina di associazioni lanciarono la campagna lItalia sono anche io, una raccolta di firme che portò a presentare in parlamento due leggi di iniziativa popolare. La campagna fu sostenuta dall’allora sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, che era anche presidente dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci). Furono raccolte 200mila firme. Il testo della legge d’iniziativa popolare fu depositato alla camera il 5 febbraio del 2012. Il 13 ottobre del 2015, dopo una lunga discussione parlamentare, è stata approvata una riforma che ingloba la legge d’iniziativa popolare e altre venti proposte di legge. Tuttavia la norma, che prevede lo ius soli temperato e lo ius culturae, è rimasta bloccata in senato da due anni e rischia di non essere approvata entro la fine della legislatura. “È come essere agli ultimi cento metri e poi ti bloccano, se finisse la legislatura senza approvare questa legge bisognerebbe ricominciare da capo”, spiega Giulia Perin, avvocata dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

La novità dello ius culturae
Nella nuova proposta di legge la vera innovazione rispetto alle proposte precedenti è l’introduzione dello ius culturae: il principio che lega la cittadinanza al fatto di aver frequentato le scuole nel paese dove si risiede prima dei 12 anni. “Questi tre concetti lo ius soli, lo ius sanguinis e lo ius culturae devono essere integrati tra loro: la nuova legge stabilisce che è cittadino chi ha genitori italiani, chi è nato in Italia da immigrati che risiedono da molti anni nel paese, ma soprattutto chi ha frequentato la scuola italiana. Questo dà una centralità alla scuola e alla cultura italiana”, spiega Giulia Perin dell’Asgi, che aggiunge: “Basta osservare i bambini: ognuno è figlio della cultura dei suoi genitori, del luogo dove è nato e cresciuto, ma soprattutto del paese in cui ha frequentato la scuola, alla fine la scuola gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della cittadinanza e dell’appartenenza a una società”. L’avvocata dell’Asgi risponde anche alle critiche di chi teme che l’approvazione della legge porterà troppe persone a beneficiare dei diritti legati alla cittadinanza. Questa paura ha alla base un equivoco di fondo secondo Perin: “L’Europa ci ha obbligato a dare agli immigrati che soggiornano legalmente nel nostro paese tutti i diritti sociali tranne quelli politici, quindi di fatto quello che cambierebbe per queste persone che vivono nel nostro paese da tanti anni come stranieri anche se sono nati qui è il diritto a votare e la libertà di movimento, cioè la possibilità di spostarsi liberamente in tutti i paesi con cui l’Italia ha degli accordi”, conclude Perin. “A chi conviene avere delle persone che non hanno modo di integrarsi al cento per cento e sentirsi parte di questa società? A volte questa domanda se la fanno anche in questura”.

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