Setirot – Sartre e noi
L’ho già detto, e chiedo scusa se mi ripeto, ma in questa fase storico-politica credo che ricordare Jean Paul Sartre e il suo «l’antisemitismo non è un problema degli ebrei bensì degli antisemiti» sia essenziale, doveroso. D’altronde io sono convinto che l’antisemitismo sia la quintessenza del razzismo tout court. Ciò che vale per “noi” vale sempre più per moltissimi “altri”. Ed ecco allora che le sartriane Réflexions sur la question juive (1954) dovrebbero diventare una sorta di manifesto per ogni cittadino visceralmente democratico. «Per causa sua [dell’ebreo] il Male accade sulla terra, tutto ciò che c’è di male nella società (crisi, guerre, carestie, rivolgimenti e rivolte) gli è direttamente o indirettamente imputabile. L’antisemita ha paura di scoprire che il mondo è fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l’uomo si ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità angosciosa e infinita. Perciò localizza nell’ebreo tutto il male dell’universo. Se le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l’idea di nazionalità, nella sua forma presente, implica quella dell’imperialismo e del conflitto di interessi. No, è l’ebreo che sta lì dietro ai governi, e soffia discordia. Se c’è una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che l’organizzazione economica lascia a desiderare: sono i caporioni ebrei, gli agitatori dal naso adunco che traviano gli operai. Così l’antisemitismo è originariamente un manicheismo; spiega il corso del mondo con la lotta del principio del Bene contro il principio del Male. Tra questi due principi non è concepibile nessun accordo: bisogna che uno dei due trionfi e che l’altro sia annientato. (…) [L’antisemita] è un uomo che ha paura. Non degli ebrei, ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della società e del mondo (…) È un codardo che non vuol confessarsi la sua viltà; un assassino che rimuove e censura la sua tendenza al delitto senza poterla frenare e che pertanto non osa uccidere altro che in effigie o nascosto dall’anonimato di una folla: uno scontento che non osa rivoltarsi per paura della sua rivolta. Aderendo all’antisemitismo, non adotta semplicemente un’opinione, ma si sceglie come persona. Sceglie la permanenza e l’impenetrabilità della pietra, l’irresponsabilità totale del guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo. Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita – e non è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell’e fatto, fuori discussione, intoccabile: non osa guardarlo per timore d’essere indotto a contestarlo e a cercarne un altro. L’ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro, o del giallo. La sua esistenza permette semplicemente all’antisemita di soffocare sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da sempre segnato nel mondo, che lo attende e che egli ha, per tradizione, il diritto d’occuparlo. L’antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla condizione umana. L’antisemita è l’uomo che vuole essere roccia spietata, un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo. (…) Tutte le persone che collaborano col loro lavoro alla grandezza di un paese hanno pieni diritti di cittadinanza in questo paese. Ciò che dà loro questo diritto non è il possesso di una problematica ed astratta “natura umana”, ma la loro partecipazione attiva alla società. Ciò significa dunque che gli ebrei, come gli arabi o i neri, dal momento che sono associati all’impresa nazionale hanno il diritto di interloquire sul suo funzionamento; sono cittadini. Ma hanno questi diritti a titolo di ebrei, neri o arabi, cioè come persone concrete».
Stefano Jesurum, giornalista