Portate via i genitori dalle scuole, subito
Negli ultimi quarant’anni la scuola italiana è cambiata radicalmente, esattamente come il paese che gli stava attorno. Eppure, malgrado la spinta sessantottina avesse indicato una strada che avrebbe dovuto portare alla libertà e all’autodeterminazionedegli studenti, il suo percorso evolutivo è stato praticamente inverso a quello che ci si poteva aspettare: invece di portare la fantasia e la libertà all’interno delle rigide istituzioni scolastiche ci ha portato i genitori, con effetti catastrofici.
Malgrado quel che pensiamo essere buon senso ci porta a pensare che il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica dei propri figli sia un bene assoluto, capace di migliorare significativamente i risultati scolastici degli studenti armonizzando una specie di schizofrenia educativa — casa vs famiglia — la presenza sempre più invasiva e costante dei genitori nella vita scolastica ha effetti opposti.
Nell’aprile del 2014, i sociologi americani Keith Robinson e Angel L. Harris pubblicarono sul New York Times gli esiti di una loro ricerca durata qualche anno che riguardava proprio gli effetti del coinvolgimento dei genitori — parental involvement, in inglese — sulla vita, scolastica e non, dei propri figli.
«La maggior parte delle forme di coinvolgimento dei genitori», scrivono i due, «come osservare i corsi dei figli, contattare la scuola per sapere come si comportano, aiutarli a decidere il loro percorso scolastico o dargli una mano a fare i compiti a casa, non migliorano i loro risultati. Anzi, in qualche caso addirittura li ostacolano». Insomma, la presenza costante dei genitori nella vita degli studenti delle scuole di ogni ordine e grado non solo non è d’aiuto, bensì ha effetti negativi sulla crescita e sui risultati dei ragazzi.
Negli ultimi tre anni, se possibile, lo scenario — anche quello italiano — si è aggravato ancora di più e, agli interventi legislativi dello Stato in favore di una sempre più stretta collaborazione scuola-famiglia, si sono sommati gli effetti della digitalizzazione tecnologica, che, come in tutti gli altri campi del nostro vivere, anche a scuola è entrata a piedi uniti, combinando un sacco di guai.
Dalle infernali chat di Whatsapp dei genitori, temute e stigmatizzate come fossero l’incarnazione del demonio da ogni insegnante sano di mente — e da ogni genitore sano di mente — fino alle comunicazioni in diretta su voti e assenze, le nuove tecnologie hanno permesso di porre sui ragazzi una cappa di controllo non soltanto insensata e totalmente inedita, ma anche contraria alle migliori intuizioni che la pedagogia del Novecento aveva partorito, prima tra tutte l’aver compreso — ma mai applicato fino in fondo — che l’obiettivo primario dio ogni percorso educativo è l’educazione alla libertà e all’autodeterminazione. Un obiettivo difficile da perseguire quando ogni minuto e ogni secondo della tua vita a scuola senti il fiato sul collo di mamma e papà.
Nel novembre del 2014, lo psicologo americano John Rosemond pubblicò un articolo che non la mandava tanto a dire e cominciava così: «Perché i giovani di oggi si emancipano dalla famiglia molto più tardi di quanto facessero nel 1970, quando l’età media dell’emancipazione maschile era 21 anni [nel 2004 era 30, nel 2020 sarà 38, n.d.R]? Perché moltissimi insegnanti si lamentano del fatto che i genitori dei loro alunni li accusano degli scarsi risultati dei loro figli? Perché la stabilità psicologica dei bambini di oggi è molto più flebile di quella degli anni Sessanta? Perché la fobia della scuola, l’ansia da risultati e quella da separazione sono diventati negli ultimi anni un problema, quando fino a 50 anni fa non esistevano neppure? Perché i genitori di oggi hanno un atteggiamento protettivo quando i professori gli dicono che i loro figli si sono comportati male? La risposta sta in due parole: parent involvement».
Il problema va affrontato subito, anche perché la qualità media dei genitori — ovvero degli adulti — italiani sta crollando, come dimostra l’insensata e demenziale (se non fosse anche pericolosissima) tendenza di alcuni a osteggiare la vaccinazione, forti della loro ignoranza da cammelli. Ma la soluzione qual è? Robinson e Harris hanno una proposta interessante e molto semplice: «They should set the stage and then leave it». Preparare il campo e defilarsi, lasciando finalmente ai ragazzi l’onere e l’onore di scegliere, di sbagliare e di schiantarsi contro i muri, che poi non sono altro tutte le declinazioni del verbo “crescere”.
Andrea Coccia per Linkiesta.it
(19 gennaio 2018)