L’intervista a Pagine Ebraiche
“Testimoniare per scelta”
Quale presente, quale futuro per la Memoria? Mai come quest’anno, il periodo del Giorno a essa dedicato è stato denso di eventi e dibattito. Come correre ai ripari dal rischio di cadere nella retorica vuota, dagli effetti della diffusa ignoranza della Storia? Nella sua bella casa milanese, a raccontare il significato più autentico dell’impegno per il ricordo è Liliana Segre, che fu deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni e dopo decenni di silenzio, è diventata una delle voci più ascoltate e potenti sugli anni bui della storia europea.
Liliana Segre, sono passati 14 anni dalla nascita del Giorno della Memoria. Come valuta la sua istituzione?
Noi che abbiamo vissuto la Shoah, non dovevamo certo aspettare questa Giornata per ricordare. Tuttavia bisogna sottolineare che il Giorno della Memoria ha risvegliato interesse per l’argomento e soprattutto messo gli insegnanti in condizione di occuparsene. Poi si possono dire tante cose. Forse è vero che negli anni si è arrivati a un’overdose di eventi. Allo stesso tempo, il pensiero che una donna eccezionale come Elena Loewenthal affermi che è necessario dire basta, per chi come me ha dedicato alla trasmissione della Memoria 25 anni di vita, pone interrogativi terribili, sensazioni agghiaccianti. Accade sicuramente che alcune manifestazioni siano organizzate da persone di buona volontà ma prive di conoscenza. Ma noi raccontiamo la nostra storia, poi come viene utilizzata non dipende da noi.
Per tanti anni lei ha scelto di rimanere in silenzio. Come è maturata la decisione di iniziare a parlare?
Sono tornata da Auschwitz molto giovane e mi sono ritrovata diversa dalle altre ragazze della mia età. La mia sofferenza non era facile da condividere. Fino a che non ebbi la fortuna di trovare l’amore. Non avevo ancora 18 anni quando incontrai mio marito Alfredo e fu per la vita. A quel punto, egoisticamente, tutto ciò che volevo fare era pensare a lui, ai miei figli, a quello che rappresentava una casa che potessi chiamare mia, per la prima volta dopo Auschwitz. Per anni mi sono difesa. Poi alcuni avvenimenti mi fecero cambiare prospettiva. Diventai nonna, il traguardo che più di ogni altro per me rappresentava la compiutezza della vita. E uscì il Libro della Memoria di Liliana Picciotto (Mursia, 1991 ). Nella preparazione del volume ero stata molto sollecitata a condividere i miei ricordi. Quando vidi quella sorta di elenco telefonico, con i nomi di tutti i deportati, dei pochissimi sopravvissuti, fui colpita. Erano trascorsi più di quarant’anni e non avevo fatto niente per quei morti. Cominciai a interrogarmi su come rimediare. Non ero insegnante, non mi capitava di avere un pubblico a cui rivolgermi. Non sapevo nemmeno se mi sarebbe uscita la voce. La prima volta che parlai mi trovavo con un gruppo a casa di amici. Poi fu come una valanga.
Come racconterebbe questi 25 anni di Testimonianza?
Ho incontrato gente meravigliosa, affetto, un’accoglienza che ricevo sempre con grande stupore. In fondo sono una persona qualunque a cui è capitato ciò che è capitato. Oggi raccontare però è diventato più faticoso. Soprattutto perché quando parlo, provo uno strano effetto di dissociazione, in cui mi pare di diventare nonna di me stessa, di quella ragazzina di 13 anni così fragile, così sola, in quella prima notte, in quella disperazione, di fronte alla morte e mi chiedo come ha fatto quella ragazzina a sopravvivere. Ma sa che cosa ci tengo a ricordare perché penso che non venga messo abbastanza in rilievo?
Mi dica.
Il ruolo fondamentale dell’Associazione Figli della Shoah, che con la stessa umiltà che contraddistingue il fondatore, Marco Szulc, ha portato avanti, nei 15 anni dalla sua nascita, un lavoro incredibile. I volontari gestiscono le migliaia di richieste che arrivano a me e ad altri sopravvissuti, ci accompagnano, preparano mostre e materiale didattico. E il loro affetto filiale ha davvero qualcosa di speciale.
Lei ha sempre considerato gli studenti il suo pubblico più importante. Come sono cambiati in questi anni?
Forse i giovani sono più preparati di prima, ma penso di essere innanzitutto cambiata io, come è giusto che sia se ci si vuole rivolgere alle nuove generazioni. Con i ragazzi continua a svilupparsi una forte empatia. Non posso dire di trovare sempre la stessa sintonia con gli insegnanti. Alcuni sono splendidi, altri sembrano solo avere fretta di sbrigare il programma, talvolta anche influenzati, mi pare, dal proprio orientamento politico. E con quella classica indifferenza che per me è diventata la parola simbolo di ciò che accadde.
Indifferenza è infatti il termine che ha voluto fosse inciso all’ingresso del Memoriale della Shoah della Stazione centrale, uno dei progetti per cui lei più si è spesa in questi anni.
Io sono nata a Milano. Ero una bambina fortunata. Conoscevo la stazione perché da lì andavo al mare, ai monti. E poi proprio in quella stazione, nella mia città, è successo ciò che è successo. Ecco perché dovevo farlo. C’è un altro luogo in cui invece non è mai voluta tornare: Auschwitz. Semplicemente non posso. Me lo hanno chiesto molte volte, e io stessa, che non ho una tomba dove piangere il mio papà e i miei nonni, vorrei tanto andare a posare laggiù tre sassolini per loro. Ma non ne ho la forza.
Lei in passato ha espresso perplessità sui “Viaggi della Memoria”.
Oggi i genitori vogliono tenere i ragazzi protetti, al riparo da qualsiasi sofferenza. Così, dopo aver visitato i campi, gli studenti a Dachau vanno in birreria, mentre a Cracovia pare ci sia una discoteca. “Gite” le chiamano. “Vestitevi leggeri, così da avere una parvenza di comprensione di cosa fosse il freddo, digiunate per un giorno, per capire almeno parzialmente la fame” così bisognerebbe dire loro. Ma quale scuola organizzerebbe un viaggio del genere? Il tempo passa, ed è impietoso. Man mano che la storia si allontana, tutto diventa una Disneyland dell’orrore. La trasmissione della Memoria si fa sempre più difficile. Basta pensare a ciò che i negazionisti riescono a dire mentre noi siamo ancora vivi. Cosa accadrà quando non ci saremo più?
Pensa che potrà essere utile la proposta di legge per istituire il reato di negazionismo?
Sono contraria a una legge. Proibire significa solo rendere più affascinante. I negazionisti trovano spazio perché ciò che raccontiamo è talmente indicibile, che è molto più bello crederci dei bugiardi. Loro sfruttano questo sentimento della gente. E assolvono i colpevoli.
L’Italia in effetti sembra avere particolari difficoltà a fare i conti con i propri colpevoli e le proprie colpe.
In Italia c’è l’armadio della vergogna. Salvo pochissimi, nessuno ha pagato. Così come non hanno pagato gli approfittatori, coloro che si sono arricchiti con quel commercio di carne umana, come i contrabbandieri che dovevano portarci in Svizzera. Gli scafisti li chiamo io oggi, perché sfruttano la stessa disperazione. Eppure dopo settant’anni, mi chiedo perché solo noi dobbiamo continuare a portare dentro questo peso, questo dolore? Nessuno di quei milioni di tedeschi, di italiani si sveglia di notte di soprassalto, domandandosi cosa hanno commesso i suoi genitori, i suoi nonni?
In molti paesi sono state riconosciute le responsabilità nazionali nella Shoah. Di recente il presidente Francois Hollande ha parlato di crimini commessi “in Francia dalla Francia”. In Italia si arriverà a fare altrettanto?
Penso sia utopico sperare che qui possa succedere lo stesso. Gli “italiani brava gente” non vogliono ascoltare. Avremmo bisogno di una classe dirigente diversa. Ma perché i ladri di oggi dovrebbero scegliere di accusare i ladri di ieri? Chi invece penso che forse potrebbe fare qualcosa è il nuovo papa.
Si riferisce alla questione dell’apertura degli Archivi vaticani e al chiarimento sul ruolo di Pio XII?
Pio XII lo incontrai. Ero appena tornata da Auschwitz e mio zio materno venne a trovarmi. Era un personaggio particolare, un genio, ma con qualcosa di strano. Si era convertito al cattolicesimo nel 1933 ed era diventato avvocato della Sacra Rota. Il 16 ottobre 1943 era stato arrestato con tutta la famiglia, che fu l’unica a essere salvata dal Collegio militare, pare per intercessione di qualche figura di rilievo in Vaticano, dove rimase fino alla fine della guerra. Quando venne a Milano mi disse che avrebbe organizzato un incontro con il papa per domandargli aiuto per avere notizie di mio padre. Pio XII ci ricevette nella sua biblioteca. Faceva un effetto impressionante. Ieratico, aristocratico, i suoi occhi scuri, sofferenti, trafiggevano il mondo, simili ai tagli di Lucio Fontana, che vidi anni dopo. Mi colpirono i modi così pieni di riguardo nei miei confronti. Gli dissi brevemente di mio padre, non c’era tempo di fare altro. Lui fece prendere nota e promise che avrebbe fatto qualcosa. Non ne sentii mai più nulla. Allora non sapevo. Ma quando vidi le sue immagini dopo il bombardamento di San Lorenzo, le braccia spalancate, lo sguardo al cielo, pensai che se si fosse piazzato, in quella stessa posizione, davanti alla locomotiva del 16 ottobre, forse quel treno non sarebbe partito. Il nuovo papa ha un approccio così umano, parla ai bambini. Parli anche dei bambini del 16 ottobre. Faccia chiarezza.
Rossella Tercatin
Pagine Ebraiche, marzo 2014
(19 gennaio 2018)