Maestre d’Italia

Sebbene “maestra” sia una parola che ha sempre ispirato immediata simpatia e il ricordo degli anni trascorsi alle elementari, magari addolciti dalla distanza, il termine maestrina da diminutivo affettuoso ha assunto una valenza per lo più negativa. Un appellativo ironico, spregiativo, che può indicare una levatura culturale modesta o sottolineare una certa saccenza. Eppure le Maestre d’Italia – questo il titolo dell’ultimo lavoro di Bruna Bertolo, pubblicato da Neos Edizioni – hanno contribuito in maniera fondamentale alla trasformazione del tessuto culturale dell’Italia post-risorgimentale, e di una popolazione che da poco aveva una identità nazionale, una lingua comune, una storia condivisa.
Nelle sue ricerche, l’autrice si è imbattuta in diverse maestre: “Figure particolari, che hanno avuto un ruolo importante non solo in ambito educativo. Le maestre sono state le prime donne che hanno avuto la possibilità di uscire dal chiuso delle case per iniziare un percorso di indipendenza, e di lotta per quei diritti che ora chiamiamo pari opportunità. Hanno lottato contro ingiustizie palesi, dalla necessità di avere una autorizzazione maritale e certificati di buona condotta rilasciati dal parroco o dal sindaco alla retribuzione differenziata per sesso: ricevevano uno stipendio di un terzo più basso. Era così, semplicemente”.
E la prima battaglia era quella per ottenere dai genitori l’autorizzazione a studiare nelle cosiddette “Scuole Normali” che davano la patente di maestra.
Sono state moltissime le donne capaci di lottare con tenacia per la propria indipendenza e per la semplice libertà di allontanarsi da casa e di lavorare, a partire da quella forse più nota, la famosissima “maestrina dalla penna rossa”, così chiamata per la piuma rossa che portava sul cappello, che Edmondo De Amicis ritrasse in Cuore. Si chiamava Eugenia Barruero, un mito torinese per il quale nel 1957, vennero celebrati funerali pubblici, e una piccola targa ancora la ricorda in Largo Montebello 38, dove visse lungamente.
Impossibile non ricordare Emilia Mariani, torinese anche lei, protagonista delle lotte per la parità di stipendio e perché le scuole elementari passassero sotto controllo statale, sottraendo così anche le riconferme delle maestre al controllo dei sindaci, che spesso sfruttavano la situazione per mettere in atto ricatti e vessazioni. Celebre il caso di Italia Donati, maestra toscana, che nel 1886 – lo stesso anno in cui usciva Cuore – si suicidò per sfuggire alle molestie e alle voci che la ritenevano amante del sindaco, arrivando a chiedere un’autopsia per provare la sua onestà. Era morta vergine.
Hanno lottato per i diritti di tutti, in un percorso capace di anticipare di molti anni la storia: dal pacifismo alla denuncia del lavoro minorile, dalle lotte politiche ai diritti fondamentali. Esemplare in questo la maestra Ille, Abigaille Zanetta, di Suno Novarese, che per i suoi principi venne incarcerata più volte e fu una delle prime a portare avanti il sogno di Zamenhof, l’Esperanto come lingua ideale, comune a tutti i ragazzi d’Europa.
Nel 1906, anno in cui a Roma veniva affisso un manifesto firmato anche da Maria Montessori che chiedeva il diritto di voto per le donne, alcune maestre marchigiane chiesero di essere iscritte nelle liste elettorali. Dopo una lunga battaglia il Primo presidente della Corte d’Appello di Ancona, Ludovico Mortara – ebreo mantovano, era uno dei maggiori giuristi italiani – confermò che, sulla base dell’articolo 24 dello Statuto albertino del 1848, quelle che divennero note come “Le dieci maestre di Senigallia” sicuramente possedevano i requisiti legali per l’iscrizione. La sua sentenza, che lo stesso Mortara spiegò in una intervista sulle pagine di questo giornale il 1° agosto 1906, venne poi annullata il 4 dicembre dalla Corte di Cassazione di Roma, ma per alcuni mesi dieci maestre, se ci fosse stata una votazione, avrebbero avuto il diritto di recarsi alle urne.
Con quaranta anni di anticipo sulla Storia.

Ada Treves per La Stampa

(19 gennaio 2018)