Quirinale, l’intervento di Anna Foa
“La Memoria ci apra gli occhi”
Sono passati ottant’anni da quando la dittatura fascista, con l’avallo della Corona e nella più completa indifferenza del popolo italiano, varò le leggi razziste, che rovesciavano l’uguaglianza conquistata dagli ebrei nel corso del processo risorgimentale trasformando in cittadini di serie B i quarantasettemila ebrei italiani – una piccola minoranza, l’uno su mille. Dopo il compimento del processo di unificazione dell’Italia, un processo di cui gli ebrei erano stati partecipi e i cui valori di libertà avevano condiviso appieno, gli ebrei avevano goduto per decenni di una piena uguaglianza. Erano divenuti cittadini come gli altri, con uguali diritti ed uguali doveri. Erano pienamente integrati nel mondo italiano, prima nel periodo liberale, in cui avevano raggiunto le più alte cariche nella politica, nell’esercito, nella burocrazia dello Stato, poi nella guerra in cui avevano versato il loro sangue per ricompensare la patria che li aveva resi cittadini, poi ancora e finanche nell’età fascista, che molti di loro avevano purtroppo visto come il compimento del processo di costruzione della nazione, dimenticandone o trascurandone il carattere dittatoriale e illiberale.
Giunte inaspettate per quasi tutti gli ebrei italiani, e in particolare per quelli che avevano aderito al fascismo, le leggi del 1938 cacciarono insegnanti e studenti dalle scuole, impiegati e funzionari dalle pubbliche amministrazioni, ufficiali di ogni grado dall’esercito (ben 24 generali). Tolsero la cittadinanza a ebrei divenuti cittadini italiani nel primo dopoguerra, rendendoli apolidi e più tardi facile preda dei nazisti. Costrinsero gli ebrei italiani ad un censimento che avrebbe nel 1943 fornito le liste per inviarli nei campi di sterminio, per farli braccare dai militi della Repubblica di Salò, per perseguitarli e sterminarli. Mille infiniti provvedimenti, piccoli e grandi, perfezionarono questo edificio: dal divieto di pubblicare libri, di scrivere nei giornali, di essere presenti con i propri libri nelle biblioteche, a quello di andare in villeggiatura, di avere domestici “ariani”, anche se necessari a malati ed invalidi, di avere un necrologio sui giornali, di essere curati in ospedali pubblici, di possedere un apparecchio radio. Fu una pagina vergognosa della storia del nostro Paese. Pochissimi quanti si opposero. E fra quei pochi mi piace ricordare la vedova di Cesare Battisti che fece pubblicare sul Corriere della Sera, che non osò rifiutarne la pubblicazione, un necrologio per un amico ebreo firmandolo “la vedova del martire”.
Solo dopo l’8 settembre del 1943 si passò dalla discriminazione allo sterminio, ma le leggi del 1938 ne prepararono l’avvento, sia censendo e così individuando gli ebrei a cui dare la caccia, sia diffondendo nel popolo italiano un antisemitismo che non gli era famigliare e che si estese come una lebbra, facendo più tardi da supporto a denunce, rapine, collaborazionismi. Erano gli anni in cui chi ancora manteneva rapporti di amicizia o anche solo di civiltà con un ebreo veniva definito sprezzantemente “pietista”, un termine che mi ricorda troppo il “buonista” di oggi. Un antisemitismo diffuso, a tutt’oggi difficile per gli storici da valutare – cinque anni di propaganda del razzismo, dell’odio antiebraico, senza che nessuno si sentisse autorizzato a contrastarlo per timore o viltà – ma che ebbe una parte fondamentale in quanto avvenne durante lo sterminio: quasi il 20% degli ebrei italiani deportati nei campi, da cui un’infima parte dei quali soltanto fece ritorno. Quasi settemila ebrei deportati, poche centinaia i sopravvissuti ai campi. Umiliati, discriminati, perseguitati, gli ebrei italiani lottarono durante la Resistenza non solo per la loro sopravvivenza ma per la libertà e la salvezza di tutti, tornando nuovamente, dopo la parentesi degli anni fra il 1938 e il 1943, a essere pienamente cittadini del loro Paese. Oltre un migliaio di ebrei nella Resistenza, una proporzione molto più alta di quella del resto della popolazione.
Vorrei ricordare oggi, in questo 2018, in cui celebriamo gli ottant’anni dalle leggi razziste, e in cui troppe voci – e da troppe parti – si levano a esaltare il razzismo e l’odio verso i migranti, che la cultura della razza, che dalla seconda metà dell’Ottocento in poi si era diffusa pervasivamente in tutti i campi del sapere, rappresentò lo scenario su cui allora fu possibile prima discriminare poi perseguitare e sterminare gli ebrei. Che, se è vero che razzismo e antisemitismo non sono la stessa cosa, non vanno sempre insieme e possono avere radici e sviluppi diversi, è anche vero che il razzismo costituì allora – e continua a costituire – l’humus necessario per la discriminazione di ogni minoranza, di ogni gruppo percepito come straniero: dagli ebrei, che non sono mai stati stranieri in Italia, ai profughi che sbarcano sulle nostre coste. Ricordiamolo, facciamone memoria, oggi nel giorno della Memoria, quando vediamo che il razzismo riemerge dall’oblio in cui pensavamo fosse stato cacciato, che vuole di nuovo presentare il suo volto oscuro in tutto il mondo, e non solo in Italia. Se lasciamo che si diffonda indisturbato, se ridiamo anche una minima legittimazione alle parole di odio in cui si esprime, non ci sarà più sicurezza per nessuno di noi. Ci sarà sempre chi sarà più bianco degli altri a rivendicare la purezza del suo sangue e della sua stirpe, dimenticando o rifiutando l’indicibile ricchezza del meticciato e del libero incontro delle culture.
Anna Foa, storica
(25 gennaio 2018)