Nero come il buio
Se si ha a che fare con una destra radicale attivista, è perché essa si è rivelata capace di adattarsi al più generale mutamento in atto nelle nostre società. Ciò facendo, ambisce a occupare quegli spazi collettivi di rappresentanza e di socialità che sono stati invece abbandonati completamente a sé dal resto della politica. Si tratta della più generale questione del «territorio»: una parola che indica, in questo caso, quelle comunità fisiche composte di individui, un tempo produttori, inseriti nei processi di creazione della ricchezza, ed oggi in piena crisi di identità e di ruolo sociale. Sono gruppi che si sentono abbandonati al loro destino, messi ai margini dall’evoluzione e dalla trasformazione dei rapporti sociali. In altre parole, ceto medio e classi produttrici, dal momento in cui l’uno e le altre sono ritenuti inessenziali o comunque non più rilevanti ai fini della creazione di consenso. Quelle comunità di persone (che sono anche elettori), il cui orizzonte sembra non interessare quei partiti, ampiamente presenti sulla scena politica, che invece ripetono ossessivamente il medesimo ritornello: «non c’è alternativa allo stato di cose esistente!». In questo lungo frangente, che storicamente data almeno dall’inizio degli anni Ottanta, la destra radicale in Europa si è presentata in quanto organismo complesso e variegato, al contempo insieme di movimenti ma anche – oramai – struttura di governo; gli uni e l’altra accomunati da un esercizio di critica dell’esistente nel nome di antiche «tradizioni» e di ancestrali «identità» da ripristinare. In merito, basti pensare anche solo all’Ungheria di Orbán. Questa destra radicale ambisce a rappresentare lo spazio sociale dell’esclusione, ossia quegli individui che si trovano ancorati ad un qualsiasi territorio che non abbia goduto dei benefici della globalizzazione e che quindi lamentano la loro marginalizzazione dai processi di cambiamento in atto. Lo fa indicandogli delle cause di disagio immediatamente condivisibili: immigrazione, «poteri forti», furto del lavoro e degli spazi di socialità, complotti e così via. Promette la liberazione da questi gioghi. A ben guardare, non si tratta di una novità. Il fascismo storico ha già lavorato in questo senso. Ma lo scenario generale è mutato. Ciò vuol dire che la storia sia destinata comunque a ripetersi? No, in alcun modo. Tuttavia alcuni moventi ideologici di fondo sono di nuovo presenti sulla scena politica davanti ai processi di indebolimento delle democrazie sociali. Questa è la realtà dei fatti: la forza del radicalismo di destra è direttamente proporzionale alla crisi delle democrazie sociali. Più indietreggiano le seconde, maggiori sono gli spazi per il primo, presentandosi come falsa risposta a problemi e disagi invece reali e diffusi. Ci si trova, quindi, in un contesto di vera e propria post-democrazia e di post-Costituzione. Alla persistenza di una Costituzione formale, carta dei diritti e degli obblighi collettivi, in sé apparentemente inoppugnabile, insindacabile e incontrovertibile, si contrappongono realtà di fatto, diffuse in molti paesi europei, dove i rapporti di forza, i poteri reali (quindi per nulla “occulti”) possono tranquillamente derogare dal sistema delle garanzie e delle tutele faticosamente costruite in quasi due secoli di trasformazioni politiche e sociali. In queste dinamiche entra prepotentemente in gioco la trasformazione profonda dello statuto del lavoro, ovvero il mutamento della sua funzione sociale. Si tratta di un processo di lungo periodo e si confronta, ancora una volta, con gli effetti della globalizzazione. Ha dei riflessi molto forti sul piano generazionale, creando degli scompensi, degli squilibri e dei cambiamenti profondissimi anche nelle identità delle persone. Quindi, nella stessa idea di cittadinanza. Che questo sia di per sé un terreno fertile per proposte radicali, è un primo dato. Chi non si sente inserito dentro un percorso di integrazione vive infatti una condizione incerta, che lo può rendere maggiormente sensibile ai richiami più estremi. Segno ulteriore di impotenza, quest’ultimo, ma senz’altro segno anche di un tentativo di residua vitalità. Un secondo elemento rimanda ad un’altra crisi, quella della rappresentanza politica e della sua costante delegittimazione. Un percorso che in Italia data ad almeno gli anni Ottanta. Cosa vuol dire, e soprattutto cosa implica? Si tratta del costante richiamo al nesso tra politica in quanto regno del malaffare, del marcio, dello sporco e del corrotto, da un lato, e tentazione a ricorrere all’auto-rappresentanza dall’altro. È il risultato della polemica contro la cosiddetta «partitocrazia», trasformatasi poi, nel corso del tempo, da sfiducia diffusa in diffidenza sistematica e poi in rifiuto degli stessi meccanismi istituzionali che regolano la vita associata. Come a volere dire: “se gli altri ti tradiscono, perché devi continuare a offrirgli una delega in bianco? Non puoi fare a meno di organismi collettivi che, per il fatto stesso di esistere, ti espropriano del tuo spazio di libertà?”. Si tratta del sogno di una «democrazia diretta», assai fallace alla prova dei fatti ma avvincente sul piano dell’immaginazione, ed in assoluta consonanza con i paradigmi ideologici di una visione individualista dei rapporti sociali, dove a contare è solo il singolo, inteso come una sorta di atomo autosufficiente, che si preserva da sé. In realtà, ogni idealizzazione relativa a forme di democrazia diretta in società complesse quali le nostre, sono non solo fuorvianti ma, paradossalmente, indirizzate a rafforzare ciò che dicono di volere invece combattere, ossia la delega. Che in questi casi si fa ancora più assolutistica, riposando infatti nell’investitura a favore della volontà insindacabile di un capo carismatico. Che sommerebbe in se stesso la capacità di prevedere e di provvedere ai bisogni della collettività. Al centro della polemica sulla delega, infatti, c’è spesso l’obiettivo di distruggere lo spazio dell’intermediazione esercitato dagli organismi di rappresentanza di massa. Poiché se la delega di rappresentanza è e rimane insopprimibile, da parziale e condizionata, come è in una democrazia dei corpi intermedi, rischia infine di trasformarsi in totale e definitiva nei movimenti e nei regimi antipluralisti. Infatti, elemento fondamentale ed unificante nel discorso delle destre radicali è, al pari dell’immediata riduzione della politica a cosa “sporca”, anche la contemporanea denuncia della mediazione tra interessi contrapposti come di un qualcosa di assolutamente intollerabile. Non a caso, la richiesta di ripristinare un campo di virtù collettive – a risarcimento della mancanza di moralità dell’agone pubblico e del rischio di corruzione per la società – è qualcosa che sta al cuore del loro modo di pensare. Mentre il discorso sull’«identità» assume i connotati soprattutto del rifiuto di una parte di ciò che è esistente (in quanto laido, sporco, insano, soprattutto “impuro”), il discorso politico che ne emerge si esime dall’obbligo di avere dei concreti punti programmatici, rifacendosi semmai a quelli che presenta come puri valori eterni, metastorici, immodificabili, dove ciò che fuoriesce da un tale contesto è censurato aprioristicamente come degenerato e corrotto. Si governa il territorio abbandonato a sé, quindi, con un discorso di nuova moralizzazione. La quale consiste non solo nel dire cosa sia giusto e cosa non lo sia, ma nel presentare il lavoro politico essenzialmente come un esercizio missionario, alla conclusione del quale chi ha diritto a fare parte della «comunità di popolo» avrà il suo posto mentre gli “altri”, gli estranei, ne saranno finalmente esclusi. Con le buone maniere o con le cattive. Con la persuasione o con la coercizione. In tale ottica, anche andare in gruppo a compiere un’aggressione ad un campo nomadi viene presentata non in quanto azione violenta bensì come esercizio di autotutela, che la “vera” società, quella radicata sul “suo” territorio (del quale rivendica il pieno possesso fisico, il controllo totale), realizza nel proprio interesse. Ancora una volta il caso ungherese è significativo: il premier Orbán, che non si deve confrontare con il problema di un eccesso di profughi e di immigrati ma con le angosce da invasione e da espropriazione (“occupano la nostra terra, il nostro spazio vitale, distruggono le nostre tradizioni e minano la coesione tra i magiari”) sta confermando in tale modo le fortune della sua traiettoria politica, da ex liberale oramai transitato verso sponde nazionaliste e tendenzialmente xenofobe. Su questo immaginario ossessivo, maniacale, pervasivo, su quello che alcuni studiosi hanno efficacemente definito come «panico identitario» – cioè la paura di non sapere più chi si è o cosa si è diventati, poiché non si hanno punti di riferimento, né tantomeno speranze per un futuro migliore – germinano quindi le istanze della destra radicale. Ne deriva e ne consegue, in immediata concatenazione, il discorso contro le élite. Sono infatti presentate come il prodotto di una globalizzazione senza volto, la materializzazione dello spirito borghese cosmopolita, quindi senza patria: sono gli «eurocrati» spietati, i banchieri e gli speculatori, gli “avvoltoi” della finanza, tracotanti espressioni dei gruppi di pressione, cioè delle «massonerie», dei «poteri forti» e così via. Tutti coalizzati contro il territorio e la nazione. A ciò il radicalismo oppone la suggestiva difesa del «sano lavoro nazionale», quello manifatturiero, quello artigianale, quello manuale, contro le astrazioni della rivoluzione informatica. Il tema dell’immigrazione, vista essenzialmente non solo come un’azione di espropriazione dei beni collettivi da parte di popoli alieni e abusivi ma come un’azione di contaminazione dei caratteri della «stirpe», è oramai parte anch’esso nel bagaglio di un certo comune percepire. Gli «immigrati» non sono solo coloro che vengono a «rubare il lavoro» ma anche quelli che intendono violare l’integrità del corpo sociale, la sua coesione, ancora una volta la sua intrinseca «purezza». Tali costrutti si rifanno a un consolidato immaginario antisemitico, che è l’archetipo per i razzismi presenti, e a venire, in tutta l’Europa. A volere dire: “l’ebreo è quello che sembra come te ma non lo è per davvero; semmai è contro di te. Nel momento stesso in cui ti sta accanto, penetra dentro di te, ti possiede e ti svuota della tua linfa vitale”. Questa mitografia, ossia una tale fantasmagoria ideologica, allora come oggi, risultano molto pregnanti per un certo tipo di subcultura diffusa, basata sulla politica della paura. Sono immagini che ritornano. Sono immagini presenti e pressanti nelle idealizzazioni di quella parte della collettività che si sente abbandonata e che cerca una guida alla quale rifarsi. All’attacco contro le élite borghesi si accompagna infine il recupero del discorso aristocratico: poiché la democrazia non solo non è utile né necessaria in quanto non protegge gli individui, essendo semmai nella sua essenza una mera manifestazione di corruzione, l’autentica forma di rappresentanza della collettività sarebbe piuttosto il ritorno al governo di un’«aristocrazia dello spirito». La quale è costituita da pochi individui, investiti di una funzione carismatica, che non deriva dalla selezione esercitata attraverso il voto dal basso ma per il tramite di una sorta di selezione “naturale”. Il capo, infatti, non è scelto dal gruppo ma si impone per le sue doti sovraumane. Richiede obbedienza, offre tutela. Domanda fedeltà, garantisce identificazione. A modo suo, è la promessa di un domani a venire.
Claudio Vercelli
(2/continua)