L’estrema destra postindustriale
Il radicalismo di destra, che non è più la stanca riedizione dei regimi degli anni Trenta, avendo sviluppato semmai una sua autonomia politica da quelle esperienze storiche, si presenta oggi come una complessa e stratificata galassia. I moventi e le radici, insieme agli sviluppi e alla sua capacità di adattarsi alle condizioni date, inducono quindi a parlare più di «estrema destra postindustriale» (sulla scorta di quando già il politologo Piero Ignazi sottolineava diversi anni fa) che non, in senso più stretto, di fascismo di ritorno. La cifra comune, tra i diversi movimenti che affollano la scena continentale, è un radicalismo non solo politico ma anche culturale e morale. Come tale dichiarato, rivendicato e compiaciuto di sé. Si tratta di un’area rumorosa che, in più circostanze, si intreccia, mantenendo irrisolti rapporti di contiguità e scambio, con le destre di governo. Trova oggi nell’Ungheria, e più in generale nell’area dei paesi del gruppo di Visegrád, il vero laboratorio di una trasformazione che rinverdisce il passato e attenua ogni speranza per un pluralismo a venire. L’intreccio tra gli autoritarismi di una parte dell’Est europeo e le “democrature” dei vari Putin ed Erdogan, come anche dei regimi – più o meno solidi o decadenti – di un Assad (al quale molta parte del neofascismo italiano guarda con simpatia), piuttosto che dello sciismo iraniano, al di là dei giochi geopolitici e delle mutevoli alleanze, fanno da cornice alle singole evoluzioni nazionali. Ne sono una sorta di ventre molle, nel quale svilupparsi. Se per un certo lasso di tempo il vincolo antifascista aveva impedito tali invasioni di campo oggi, invece, sono molto spesso bene accette. È questo, senz’altro, il punto dolente: si ha a che fare con un neofascismo da salotto buono, la cui funzione è di rendere non solo culturalmente leciti ma anche socialmente plausibili esercizi di autoritarismo della cui traduzione in atti concreti si incaricano poi forze politiche definite «moderate». Più che un agire di sponda tra gruppi radicali e forze parlamentari si è semmai in presenza di una deriva dei significati politici e di un’accettazione di temi che un tempo, invece, non avrebbero trovato spazio nel proscenio politico, rimanendo ancorati al settarismo rancoroso dal quale derivavano. Oggi, invece, le cose sono ben diversamente orientate. Ancora una volta l’Ungheria di Orbán ha qualcosa da insegnare, al riguardo. È una dinamica di reciprocità tra destre estreme e partiti «centristi», che sta producendo i suoi effetti a livello continentale. Pari traiettoria, al netto delle differenze nazionali, la si può misurare anche in Polonia. Tra le altre cose, l’introduzione nella legislazione penale di una norma che di fatto rimuove il coinvolgimento nella politica nazista di sterminio non risponde alla necessità – pur male soddisfatta – di censurare definitivamente il «male assoluto», bensì di dichiararsene esenti a priori, per poi assolvere il proprio nazionalismo da qualsiasi responsabilità presente e a venire. La destra radicale europea vive peraltro la crisi di rappresentanza delle sinistre, riformiste e non, come un’opportunità senza pari. Può carpirne una parte del suo elettorato, smarrito dai cambiamenti e in crisi di ruolo. Fondamentale è, per il suo programma, rielaborare i legami sociali da un punto di vista etnico. Il suo punto di forza è che parla ad un’intera collettività, rilevandone e denunciandone i problemi comuni (sempre più spesso trascurati dalla politica, in evidente affanno rispetto alle risposte da dare) ma offrendo ad essi una soluzione dichiaratamente regressiva. Alla società sostituisce il concetto di «comunità», quest’ultima costituita da soggetti affratellati da vincoli di sangue e di reciprocità etnica; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una «identità» forte, basata sul binomio tra «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze di ruoli, ceti e identità la sua falsa realizzazione; alla farraginosità dei sistemi rappresentativi risponde con il ricorso all’autorità carismatica e l’insofferenza verso i diritti. Tre sono quindi i fattori di maggiore tensione, allo stato attuale delle cose: il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni. Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione. Dall’insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra (ripiegata sul mero riconoscimento dei diritti civili, disgiunti da una riflessione sugli indirizzi di fondo della società), declinandola però sul versante delle appartenenze etno-razziali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico (o «sionista»). Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattore di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di una società altrimenti in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione) diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti. Il neofascismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili, la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che c’è e che avrebbe fallito: la democrazia sociale e liberale. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in uno condizione di mobilitazione spasmodica. Una società che si senta perennemente sotto pressione, risulterà comunque meno disponibile a tutelare le proprie libertà, semmai negoziandole e poi cedendole a favore di quanti dovessero presentarsi come coloro che la sanno tutelare, ossia proteggere, dalla minaccia pervasiva e incombente del rischio di un’ecatombe collettiva. In tale modo, il radicalismo di destra, si candida a rappresentare e a governare parti delle nostre società abbandonate a sé. Ancora una volta in un gioco di specularità con una qualche parte più rispettabile della comunità politica, di cui spesso si rivela essere un imbarazzante ma necessario alter ego, svolgendone il «dirty job» di dire ciò che altrimenti sarebbe interdetto dall’arena pubblica. Consapevole che la variabile del tempo potrebbe risultare a suo favore. Non torna il fascismo storico ma senz’altro declinano la democrazia sociale e il pluralismo. È questo il vero problema.
(5/fine)
Claudio Vercelli
(18 febbraio 2018)