Pagine Ebraiche, dossier Gerusalemme
Una città dalla bellezza difficile
Pietre plurimillenarie e grandi incontri nel segno dello sport. Arte, geopolitica e letteratura. Ma anche un curioso rapporto con la creatività cinematografica. Nel 70esimo anniversario della nascita dello Stato di Israele Pagine Ebraiche di marzo ne celebra la capitale con uno speciale dossier, “Benvenuti a Gerusalemme”, curato da Ada Treves.
“Portare Gerusalemme al cinema è come uscire con l’amica troppo bella. Per quanto ti metta in ghingheri avranno tutti occhi solo per lei” racconta Daniela Gross. Forse è per questo che la città stenta a trovare il suo cantore sul grande schermo. “Troppo appariscente, troppo evocativa, troppo ricca di storia, storie e simboli: una protagonista più che una comprimaria, destinata a relegare sullo sfondo intreccio e attori”. Anche se qualcosa finalmente sembra muoversi.
Una città dalla bellezza difficile
Portare Gerusalemme al cinema è come uscire con l’amica troppo bella. Per quanto ti metta in ghingheri avranno tutti occhi solo per lei. Forse è per questo che la città stenta a trovare il suo cantore sul grande schermo. Troppo appariscente, troppo evocativa, troppo ricca di storia, storie e simboli: una protagonista più che una comprimaria, destinata a relegare sullo sfondo intreccio e attori. Insomma, un posto da cui è meglio tenersi alla larga sempre che in ballo ci siano la storia, la Bibbia o i crociati. Non siamo nelle campo delle sensazioni ma davanti a un fenomeno che, numeri del Jerusalem Film Fund, assume una portata inquietante. Dei 700 film girati in Israele fra il 1948 e il 2008, appena 30 sono stati ambientati a Gerusalemme: gli altri hanno optato per le spiagge e i grattacieli di Tel Aviv o hanno fatto rotta verso località meno conosciute. È uno strano scherzo del destino, se si considera che in Israele il cuore del cinema batte proprio a Gerusalemme. Qui, quasi cinquant’anni fa, grazie al lavoro pionieristico di Lia Van Leer ha visto la luce la Cinematheque che, nella magnifica sede con vista sulle mura, oltre ad ospitare l’Israel Film Archive, l’archivio più ampio del Medio Oriente con oltre 32 mila film e documenti audiovisivi, promuove l’annuale Jerusalem Film Festival, appuntamento di spicco in Israele e nel circuito internazionale, insieme a un serrato programma di proiezioni e mostre. Per rilanciare la città nell’immaginario collettivo il Jerusalem Film Fund, che dal 2008 sviluppa la cinematografia locale, ha messo in campo per chi gira in loco contributi sostanziosi e ottime professionalità. La formula, già collaudata altrove, ha centrato l’obiettivo. I filmaker sono accorsi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Secondo le stime, negli ultimi otto anni si sono girati in città almeno 60 film e numerosi programmi televisivi. Smarcarsi dagli stereotipi non è stato facile ma nemmeno impossibile. È bastato, come hanno fatto i più, schivare gli scenari stravisti della città vecchia e focalizzarsi sui quartieri al di fuori delle mura, altrettanto ricchi di spunti e suggestioni ma sconosciuti al grande pubblico. Ne è emersa una Gerusalemme dal fascino sottile, che dà risalto ai personaggi e alle loro vicende invece di stritolarli nel suo abbraccio prepotente. Fra i titoli che stanno ridisegnando la città spicca il bellissimo Tikkun di Avishai Sivan, vincitore nel 2015 del Jerusalem Film Festival. Girato interamente in bianco e nero, il film si gioca fra gli interni claustrofobici del quartiere di Mea Shearim e ariosi scorci periferici in una visione onirica e densa di poesia. In scena, la crisi di Haim Aron, ragazzo prodigio che da futuro leader della sua comunità diventa motivo di scandalo e di preoccupazione. Brillante studente di yeshiva, il giovane sviene durante un digiuno che si è autoimposto e perde conoscenza. I paramedici lo danno per morto, ma lo sforzo disperato del padre lo rianima. Riprese le forze, il ragazzo sperimenta il risveglio del corpo e dei sensi e finisce per trascurare gli studi mentre esplora il mondo al di là dei confini di Mea Shearim. I suoi vagabondaggi ci guidano nelle notti di una Gerusalemme invernale, spesso spazzata da vento e pioggia, dove le ombre sfumano nei riflessi delle luci sul selciato, l’orizzonte sembra non avere confini e la solitudine è la cifra inevitabile della condizione umana. A fare da controcanto, la crisi di coscienza del padre che non smette di chiedersi se sia stato giusto forzare il volere divino quando il figlio stava per morire. Sono elementi visivi che tornano, anche se in chiave diversa, in Sognare è vivere (2015) diretto e interpretato da Natalie Portman, che traspone sul grande schermo il romanzo autobiografico di Amos Oz Storia d’amore e di tenebra. Qui la narrazione si concentra fra i vicoli della città vecchia di Gerusalemme riportandoci agli anni che precedono la fondazione dello Stato. In un’impeccabile ricostruzione d’epoca, intercalata a preziosi footage storici, ci ritroviamo nel ventre buio di una Gerusalemme povera, spesso fredda e battuta da piogge torrenziali. L’ambiente è quel mondo di immigrati coltissimi e spesso spaesati nella Palestina di quegli anni che Amos Oz ha magnificamente descritto nel suo libro. Gli Oz sono una delle tante famiglie ebree scappate dall’Europa al montare delle persecuzioni antisemite. Il padre Aryeh, originario di Vilnius, è uno studioso di letteratura ebraica. La madre Fania, nata a Rovno, è cresciuta, come scriverà il figlio, “in una cultura di eterea e nebulosa bellezza, le cui ali si erano schiantate contro la dura pietra di Gerusalemme, calda e polverosa”. Quando l’indipendenza d’Israele non porta quel rinnovato senso della vita che Fania aveva sperato, la donna scivolerà in una depressione che la porterà al suicidio in una traiettoria sospesa fra sogno, fantasia e delirio. Al polo opposto troviamo Norman (2016), primo film americano di Joseph Cedar che già aveva scelto Gerusalemme per il bellissimo Footnote (2011), vincitore del premio per la migliore sceneggiatura a Cannes. Se lì i due protagonisti, entrambi accademici, si muovevano negli scenari rarefatti dell’Università ebraica, Norman ci porta al centro della politica israeliana esplorandone le dubbie connessioni con il mondo ebraico americano. L’uomo d’affari Norman Oppenheimer, interpretato da un Richard Gere ingobbito e con le orecchie a sventola, mette infatti a segno il grande colpo il giorno in cui incontra a New York Mischa Eschel, politico israeliano interpretato dal magnifico Lior Ashkenazi. Gli regala un paio di costosi mocassini e Eschel diventa primo ministro d’Israele, riscuote il prezzo di quella che definisce la loro amicizia. Il legame finirà per catapultarlo al centro della scena ebraico americana, dove non è più un uomo da evitare ma un personaggio meritevole d’ammirazione e interesse. Ci penseranno gli intrighi della politica israeliana – impossibile ignorare un certo rimando all’attualità – a trasformare il suo folgorante successo in una tragica caduta. A differenza di Footnote, l’ultimo film di Cedar si svolge a Gerusalemme solo nelle scene girate alla Knesset e nella residenza del primo ministro Eschel, in un’ambientazione che tende a privilegiare la cifra contemporanea di certe aree urbane più che la stratificazione storica. La città non è però un semplice accessorio visivo perché l’intero film si gioca nella relazione fra Gerusalemme e New York, in quella che il regista ha definito il racconto delle due città oggi al centro della vita ebraica. La nuova immagine di Gerusalemme non funziona solo all’estero ma, forse a sorpresa, miete consensi anche in Israele. Uno dei successi della scorsa annata cinematografica è stato The Women’s Balcony di Emil Ben-Shimon, che racconta la crisi innescata nel quartiere Bukharim da un giovane rabbino quando convince gli uomini che le donne non hanno bisogno di un posto al tempio. Fra i film più apprezzati anche nel circuito dei festival si segnalano inoltre Past Life di Avi Nesher che torna a Gerusalemme dopo avere girato nel bel quartiere di Musrara il suo primo film The Wonders e Beyond the Mountains and Hills di Eran Kolirin sulla crisi di coscienza di un veterano. Ma gli incanti di Gerusalemme non finiscono qui, come dimostrano Abulele (2015), fantasy di Jonathan Geva che inscena la tenera storia di un ragazzino che sullo sfondo della città di Davide diventa amico di una creatura magica o Baldy Heights (2014) di Noam Meshulam che narra in 3D di un mondo alla rovescia, dove i capelli sono sacri e la musica fuori legge. D’altronde, come stupirsi? Nell’epica puntata che nel 2010 porta i Simpson in Israele persino il coriaceo Homer finisce per cadere vittima della sindrome di Gerusalemme.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche dossier Benvenuti a Gerusalemme
(13 marzo 2018)