Il vuoto pneumatico
C’è solo l’imbarazzo della scelta, per così dire, nel calderone delle cattive notizie di quest’ultima settimana: le reazioni all’assassinio di Mireille Knoll, che appaiono comunque molto timide e tiepide, quasi a volere lasciare intendere che la questione dell’antisemitismo, soprattutto se di matrice islamista, sia più un “problema degli ebrei” che non della società nel suo insieme; gli arresti, o comunque le indagini, sui jihadisti fai-da-te, quelli che si radicalizzano davanti al computer o allo smartphone, raccogliendo l’eredità dell’Isis ma a modo proprio, magari nel chiuso delle stanze delle case dei genitori, prima di uscirne per dedicarsi ad un po’ di macelleria; le violenze, ampiamente preannunciate e quindi preordinate, ai confini tra la Striscia di Gaza e Israele, dove si ripete un copione demenziale (alla crisi tra ossificate élite dirigenti palestinesi – avevano pure attentato al premier Anp Rami Hamdallah, tre settimane fa – Hamas risponde scatenando un nuovo ciclo di violenze, punto e a capo) che è poi parte stessa del reiterarsi all’infinito di quella specie di infinito “blob” mediorientale che è divenuto il “conflitto israelo-palestinese”, nel quale entra di tutto, salvo la sostanza concreta dei problemi; ma anche l’invasione di campo dei poliziotti francesi nel centro migranti di Bardonecchia, a volere lasciare intendere, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che il coordinamento di qualsivoglia politica europea sui processi migratori si arresta dinanzi ai confini nazionali (quelli propri, non gli altrui), perché a parole c’è comunque solidarietà e reciprocità ma nei fatti l’Unione è sempre più una pallida manifestazione di un consorzio di nazioni diseguali e politicamente affaticate, spesso in rapporto di reciproca diffidenza. Cosa unisca queste vicende tra di loro, al di là dello stretto intrecciarsi cronologicamente nell’arco, per l’appunto, di una settimana, non è facile dirlo. Il semplice accostamento, evidentemente, non basta. Ma al netto della loro diversità, a ben pensarci, c’è come una sorta di binomio che si riconferma in ognuna di esse, ovvero quello che intercorre tra crisi della vecchia politica, incapace di fare fronte agli scenari del cambiamento, e sfrangiamento della coesione sociale. La violenza trova in questo contesto la fenditura attraverso la quale incunearsi e costruirsi uno spazio di falsa legittimazione. L’antisemitismo islamo-jihadista, quello con cui sempre più spesso ci si dovrà confrontare, ne è allora come l’indice di riferimento. Una sorta di termometro per misurare la febbre che accompagna le nostre società. Per usare le espressioni maggiormente puntuali di un Pierre-André Taguieff, il tratto comune è la «nuova giudeofobia» che costituisce il punto di convergenza di rancori, rabbiosità impotenze ma anche di deliri di onnipotenza. C’è da giurarci che sempre più spesso si sentirà parlare di «sionisti» come del male universale. Anche nel caso dei flussi migratori, ovviamente orchestrati da una qualche centrale che ha ad obiettivo il “meticciato universale”. Sia ben chiaro, nessuna sindrome persecutoria: non è che gli ebrei siano al centro del mondo. È che a volte c’è chi li fa diventare tali, laddove intende il mondo come il prodotto di un complotto. Purtroppo, ancora una volta torna in auge un riscontro che le democrazie pallide e stanche fingono di non sapere riconoscere, ossia che la lotta contro le minoranze è solo la piattaforma ideologica e programmatica attraverso la quale rimettere in riga la maggioranza. Un fatto che si ripete con drammatica costanza quando quella cosa che chiamiamo «politica», l’amministrazione del bene comune ma anche il desiderio di un futuro che non si riduca a pura distopia o ad angoscia incurabile, viene sostituito dal vuoto pneumatico dell’indifferenza individualistica. Più che con una “crisi di valori” parrebbe doversi misurare, sempre più spesso, con l’assenza di qualsiasi valore che non sia quello contabilizzabile.
Claudio Vercelli
(2 aprile 2018)