JCiak –Philip Roth al cinema
Ottimi romanzi spesso generano pessimi film. Le eccezioni non mancano, vedi Il Pianista o La scelta di Sofie. Nessuna (o quasi) riguarda però Philip Roth. A scorrere gli articoli in memoria del grande scrittore appena scomparso non si direbbe. Accanto ai romanzi torna infatti puntuale l’elenco dei sette film tratti dalla sua opera – da La ragazza di Tony (1969) a Pastorale americana (2016) – quasi che temi e personaggi siano scorsi fluidi dalla pagina al grande schermo.
Non è andata così, purtroppo. Lezioni d’amore (2008) basato su L’animale morente e diretto da Isabelle Coixet, e il recente Indignazione (2016) di Julian Schamus, tratto dall’omonimo romanzo, si sono avvicinati all’obiettivo di rendere toni, temi e ambienti. Per il resto, il panorama è piatto se non desolato.
Non che Roth si aspettasse molto di più. Il suo rapporto con il cinema è sempre stato improntato a un certo distacco. La qualità pittorica del cinema, a suo giudizio, non era in grado di competere con la precisione e la potenza delle parole. Non per caso, al giovane scrittore Hanif Kureishi consigliava, in una famosa lettera, di concentrarsi sulla scrittura e non disperdere energie sul grande schermo.
Rivendicare la superiorità della letteratura suona stravagante e snob, in questi tempi votati all’immagine e all’autorialità dei registi. Ma Roth non era uno snob. Amava il baseball, i vecchi programmi radiofonici, le battute sporche e non ne faceva mistero. E di certo non si faceva illusioni sui lettori, lui che già dieci anni fa aveva pronosticato la morte del romanzo.
È che formatosi negli anni Cinquanta, alla Bucknell University e poi all’università di Chicago, aveva imparato a distinguere fra cultura pop e cultura, come nota Leo Robson sul New Yorker. Il fatto persino William Faulkner e Hemingway, che annoverava fra i suoi autori favoriti, si fossero consegnati alla macina di Hollywood non cambiava di una virgola la sua opinione.
O forse è che, semplicemente, il cinema e Roth erano incompatibili. Il suo mondo non si poteva stringere abbastanza perché la camera lo catturasse. La sua miscela di sarcasmo, pietà, ebraismo, cosmopolitismo, satira, emozioni, politica era troppo mutevole per riuscire a irrigidirla in tre dimensioni, i suoi personaggi troppo articolati, i suoi dialoghi troppo scoppiettanti.
Neanche i film basati sui romanzi dell’ultimo periodo, più ricchi di intreccio e azione, sono riusciti nell’impresa. I cast stellari – Anthony Hopkins e un’improbabile Nicole Kidman nel ruolo di una domestica analfabeta in La macchia umana (2003); Ben Kingsley e Penelope Cruz in Lezioni d’amore; Al Pacino in The Humbling (2005) – evitano il naufragio. Ma da qui a parlare di successo la strada è lunga.
È un esercizio malinconico rivedere adesso i film basati sui libri di Philip Roth a partire da La ragazza di Tony (1969) tratto da Addio, Columbus e Se non faccio quello non mi diverto (1972), surreale titolo italiano de Il lamento di Portnoy per concludere con Pastorale americana (2016) diretto e interpretato da Ewan McGregor, ottimo esempio di come da un potente affresco storico e sociale si ricavi un impasto senza capo né coda.
Per ritrovare al cinema Philip Roth conviene dunque andare in un’altra direzione. Un ottimo inizio è Listen Up, Philip (2014) di Alex Ross Perry, che porta sul grande schermo un giovane scrittore (Jason Schwartzman) caustico e troppo concentrato su se stesso che in attesa della pubblicazione del suo secondo libro e si stabilisce nella casa estiva del suo idolo letterario Ike Zimmerman (Jonathan Pryce).
Si può proseguire con Adaptation (2002), diretto da Spike Jonze su sceneggiatura di Charlie Kauffman, in cui un tormentato scrittore (Nicholas Cage), alle prese con una sceneggiatura, si dibatte fra ambizioni, senso d’inadeguatezza, frustrazioni sessuali e invidia per il fratello gemello assai più disinvolto e di successo. La complessità della struttura narrativa, il tocco cerebrale e la costante oscillazione fra umor nero e grottesco disegnano un ritratto d’artista indimenticabile.
A completare la panoramica, non può mancare Harry a pezzi (1997), scritto e interpretato da Woody Allen, che mette in scena un autore affetto dal blocco dello scrittore. Amici e parenti lo odiano perché lo accusano di avere messo in piazza nei suoi libri i fatti loro. Convinto che non sarà mai più capace di scrivere, si deprime ancor di più quando non trova nessuno che lo accompagni a ricevere un premio nella sua vecchia università, quella che in gioventù l’aveva espulso. Se vi ricorda qualcuno, siete nel giusto.
Forse però, all’indomani della scomparsa di Philip Roth, vale la pena mettere da parte la fiction per ritrovare il suo volto e le sue parole. Un’ottima fonte è Philip Roth Unmasked, diretto da William Karel e Livia Manera, in onda su Pbs nel 2013. Il documentario esplora la vita e la carriera dello scrittore con il contributo di Jonathan Franzen, Nicole Krauss, Claudia Roth Pierpoint e Mia Farrow.
Negli spezzoni online lo si vede nella quiete del suo studio, mentre descrive il suo lavoro di scrittore. Un mestiere quotidiano, attento e preciso, portato avanti fino al momento in cui ha deciso il suo bagaglio di storie si era esaurito ed era tempo dedicarsi ad altro. Basta ascoltare la sua voce e ritrovare quel sorriso sardonico per avvertire, ancora più profondo, il vuoto lasciato dalla sua scomparsa.
Daniela Gross
(24 maggio 2018)