…diritti

Uno dei dibattiti più rivelatori nella storia ebraica a proposito di diritti umani si è manifestato in uno scambio di lettere fra Hanna Arendt e Gershom Scholem nell’estate del 1963 alla vigilia della pubblicazione del testo della Arendt su Eichmann. Scholem accusava la Arendt di indifferenza verso il suo popolo: “Nella tradizione ebraica c’è un concetto che è difficile da definire eppure piuttosto concreto che chiamiamo ‘ahavat yisrael’, cioè amore del popolo d’Israele. In te, così come in molti intellettuali provenienti dalla sinistra tedesca, non ne trovo traccia”. Hanna Arendt rispondeva con altrettanta chiarezza: “In effetti hai ragione, non sono mossa da alcun ‘amore’ di questo tipo. Nella mia vita non ho mai ‘amato’ un popolo o una collettività. Né il popolo tedesco, né quello francese né quello americano, né la classe lavoratrice né altre categorie del genere. In effetti ‘amo’ solo i miei amici e l’unico tipo di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone”. Si trattava all’epoca – come sottolinea James Loeffler in un recente libro (Rooted cosmopolitans. Jews and Human Rights in the Twentieth Century, Yale University Press 2018) – dell’ennesima espressione di conflitto fra il particolarismo e l’universalismo. Nelle parole della Arendt l’identità di gruppo (nazionale) rende vana l’utopia di un’etica universale. Il problema è che né Scholem né la Arendt furono mai dei rappresentanti manichei delle posizioni così dure che leggiamo nel loro scambio epistolare. Scholem aveva criticato con forza gli eccessi sciovinisti del sionismo e gli errori morali che questo atteggiamento aveva prodotto. E Hanna Arendt aveva più volte sostenuto il legame essenziale fra le radici e i diritti. Nel 1942 scriveva fra l’altro: “La giustizia per un popolo può significare solamente giustizia nazionale. Uno dei diritti umani inalienabili degli ebrei è il diritto di vivere e se necessario di morire da ebrei.” A ben vedere oggi il dibattito non è poi così diverso. Il duro confronto sul suprematismo nazionale e sulla salvaguardia dei diritti umani è all’ordine del giorno in Europa come in Israele come pure negli Stati Uniti. Di certo si tratta di un dibattito di fronte al quale siamo tutti chiamati ad esprimerci, onorando la memoria e studiando le opere di Hersch Zvi Lauterpacht, ebreo galiziano sionista della prima ora (cioè nazionalista) che di fronte alle persecuzioni del popolo ebraico subite nel novembre del 1918 a Lemberg/Lvov/Lviv (150 civili massacrati dalle truppe polacche) prese la strada dello studio dei diritti umani. Fu il primo a definirli dal punto di vista giuridico e a lui si debbono le riflessioni più profonde nel merito. Un diritto universale, elaborato da un convinto fautore del diritto a un particolarismo nazionale.

Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC

(15 giugno 2018)