JCiak – Il Testimone e il Figlio
Prima di lui pochi sapevano cosa voleva dire Shoah. Toccò al suo film, che così volle intitolare, rendere il termine universale. Una parola, un sussurro appena, per evocare il cuore di tenebra del secolo breve. “Il nome che ho dato al film è diventato il nome della cosa e va bene così”, spiegava Claude Lanzmann, il grande cineasta francese da poco scomparso.
All’uscita, nel 1985, il suo Shoah piombò sulle coscienze come un macigno cambiando per sempre la percezione dello sterminio. Nove ore e mezza di immagini e interviste, senza spezzoni d’archivio, sottotitoli o doppiaggio. Il frutto monumentale e dirompente di undici anni di viaggi, ricerche, incontri e meticoloso editing.
Il film fu accolto in Polonia da un’unanime condanna e il governo chiese invano alla Francia di metterlo al bando. Viene da chiedersi cosa ne direbbe Lanzmann del documento appena siglato da Netanyahu e dal suo collega polacco Morawiecki su nazismo, persecuzioni e antisemitismo e delle relative polemiche. In una sincronia che inquieta, la notizia ha finito per intrecciarsi sui giornali di tutto il mondo a quella della sua morte.
Shoah – per cui il suo artefice ha rifiutato sia l’etichetta di documentario sia quella di fiction – si affacciò al mondo di sorpresa. Claude Lanzmann, era allora al suo secondo film e il primo, Pourquoi Israël, non aveva lasciato grande traccia. Di lui si conoscevano il lato avventuroso, l’impegno nella rivista Temps Modernes, il rapporto con Sartre e l’amore con Simone de Beauvoir. La latenza di un capolavoro era imprevedibile.
Sono stato un uomo lento a maturare, ammise molti anni dopo nell’autobiografia La lepre della Patagonia. La maturità fu però folgorante. Il grande affresco realizzato in Shoah, ha finito per rappresentare la summa della Memoria, coniugando al valore documentale delle testimonianze esiti estetici e drammatici altissimi.
Aspro, teso, a tratti durissimo, il film evita ogni scorciatoia e calibra gli effetti con sapienza.
Non ci sono sottotitoli, traduzioni, documenti d’epoca. Le voci s’intrecciano in una torre di Babele che mescola francese, yiddish, tedesco, italiano inglese, ebraico e inglese. I luoghi si sovrappongono ai volti.
Le interviste sono spesso messe in scena che suscitano nel testimone una cascata di ricordi e procurano allo spettatore un pugno allo stomaco (la più celebre è quella al barbiere di Treblinka Adrian Bomba mentre taglia i capelli a un amico). Quelle strappate con l’inganno ai carnefici scorrono invece in contrappunto alla desolazione dei campi di morte. Le loro parole sfidano il silenzio dell’assenza e sempre ne escono ammutolite.
Shoah è un grido dell’anima filtrato da un lavoro sofisticato, minuzioso, ossessivo. Sono serviti cinque anni di editing, su una mole impressionante di materiale (350 ore di girato) per arrivare fino fino qui. È il culmine dell’opera di Lanzmann, a cui il suo nome rimarrà per sempre legato, e al tempo stesso un’ingombrante pietra di paragone.
Il regista non ha mai risparmiato le critiche, spesso feroci, alle narrazioni dello sterminio ebraico in chiave di fiction ed è rimasta celebre la sua definizione di Schindler’s List come “décor della Shoah”. A conquistarlo è stato invece lo sguardo, diametralmente opposto, di László Nemes che ne Il figlio di Saul (2015) ha narrato la disperata storia di un Sonderkommando ad Auschwitz illuminando, in lunghi piani sequenza, sul tessuto sonoro dei rumori del campo, solo ciò che vede il protagonista, l’ebreo ungherese Saul Auslander addetto a spogliare i corpi destinati al crematorio
“Il figlio di Saul – ha detto Lanzmann – è l’anti Schindler’s List. Non mostra la morte, ma la vita di quanti sono stati obbligati a condurre i loro cari alla morte”. Trent’anni dopo Shoah, Lanzmann è sembrato così passare il testimone a un’altra generazione. Un gesto per certi versi inevitabile perché lo sguardo del giovane Nemez pare germogliare dalla rocciosa radice di Shoah. E perché un figlio è l’unico modo che abbiamo di sopravvivere.
Daniela Gross