…Lanzmann
“Devi andare avanti Ab. Devi” “Non posso. È troppo orribile. Per favore” “Dobbiamo farlo, lo sai” “Non ci riesco” “Devi farlo. Lo so che è molto duro. Lo so, e ti chiedo scusa”.
“Shoah” è il più grande documentario della storia del cinema, disse una volta Marcel Ophuls, grande documentarista a propria volta. A pochi giorni dalla scomparsa dell’artefice del documentario sullo sterminio degli ebrei europei, Claude Lanzmann, vorrei provare a riflettere sull’influenza che la sua opera ha avuto e continua ad avere.
“Shoah” non è un film che ricostruisce la storia, ma è un film di memoria. Un viaggio nella memoria, un viaggio della memoria se vogliamo utilizzare espressioni che questa opera ha contribuito a far nascere, perché “Shoah” vuole imprimere la testimonianza e non ricorre dunque ad alcuna immagine di repertorio. Testimoni sono un barbiere di Tel Aviv, un emissario del governo polacco nel ghetto di Varsavia (“Non c’era traccia di un mondo, laggiù, né di umanità…”), le betulle di Auschwitz, una panchina della stazione di Sobibor. E tante altre persone, luoghi, oggetti. Nonostante gli interventi illuminanti dello storico Raul Hilberg nel corso del film, “Shoah” non intende tracciare la storia dello sterminio, ma è un atto di memoria di enorme portata. Lanzmann si muove e muove alla ricerca della memoria e ci presenta le testimonianze allo stato liquido che precede l’interpretazione. Soltanto ogni spettatore singolarmente è in grado di comporre in figure questa materia sfuggente. In altre parole, Lanzmann e Hilberg ci mettono nelle condizioni di leggere i materiali proposti fornendo gli strumenti necessari, è però lo spettatore medesimo a dover completare il film interpretando quello che vede. Un esempio di quanto detto. Nel piccolo villaggio di Chelmno, nei pressi del quale sono stati uccisi con il gas circa 400 000 ebrei, Lanzmann dialoga con due anziani polacchi sotto il portico della loro casa. Che bella casa, da quanto abitate qui? Solo quindici anni? E prima dove stavate? E chi stava qui, prima? Sì, prima, prima della guerra?
Emerge molto, è vero, ma dobbiamo essere noi a coglierlo. Il respiro ampio e la lunghezza considerevole – oltre 9 ore – del film sono indispensabili per lasciare allo spettatore tempo per riflettere e contribuire all’operazione di recupero della memoria, il tempo che non abbiamo il diritto di perdere.
“Shoah”, che esce nel 1985, segna un prima e un dopo nella storia della memoria dello sterminio degli ebrei europei. Ben oltre le intenzioni di Lanzmann, apre la strada alla memoria di massa, alle iniziative politiche della memoria, alla memoria come cultura diffusa, all’impressione sul volto dell’Europa di una geografia della memoria e contribuisce in modo decisivo alla nascita di un vero e proprio genere di cinema in grado di raggiungere – in alcuni casi a prezzo di discutibili semplificazioni – decine di milioni di persone in tutto il mondo. Apre la strada alla memoria che conduce fino a oggi e prosegue, prosegue ancora al tempo degli ultimi sopravvissuti, quando macchie di erica e arbusti bassi coprono ormai la radura sabbiosa di Treblinka, tra due ali di pini.
Giorgio Berruto