Andreé Ruth Shammah
“La cultura deve rompere gli schemi”

PE shammahRompere gli schemi. Se c’è una definizione che può riassumere il modo di vivere di Andreé Ruth Shammah forse questo è il migliore. Se si prova ad accostarla a una categoria specifica, che si tratti del suo lavoro, del suo ruolo di donna, della sua identità ebraica, la risposta è secca: “Non mi piacciono molto le etichette. Artista, imprenditrice, donna di sinistra, sono gli altri che cercano di definirmi, di certo mi piace giocare fuori dagli schemi. E romperli a volte”, spiega a Pagine Ebraiche e “soprattutto mi piace il mio lavoro”. Quello di agitratrice culturale, di regista, di direttore di un teatro, il Franco Parenti, che sotto la sua guida è diventato un punto di riferimento per Milano. Al suo lavoro si è dedicata intensamente – “forse troppo, a volte mi sembra di essere stata un soldatino” – e in questo 2018 ha potuto festeggiare diversi anniversari: i 70 anni di vita, i 50 di teatro, i 30 alla guida del Salone Pierlombardo. Il 25 giugno ha chiamato famiglia, amici, colleghi per festeggiare insieme a loro – nel giorno del suo compleanno – i traguardi di una vita. Sul sito del Parenti, si legge che “ha firmato oltre cento regie. Tra le altre Io, l’erede di Eduardo De Filippo, Eracle di Euripide con Franco Branciaroli, L’amante di Pinter con Luca De Filippo e Anna Galiena, Sior Todero brontolon di Goldoni e Hotel dei due mondi di Eric-Emmanuel Schmitt, Cesare e Silla, atto unico di Indro Montanelli, La terza moglie di Mayer di Dacia Maraini, La locandiera di Carlo Goldoni”. Una vita a dirigere le scene che quest’anno la vedranno in una veste diversa: “Per i 70 anni mi faccio un regalo, debutterò come attrice nella nuova edizione dei Promessi sposi di Testori. Nessun personaggio, sarò io, un po’ di lato ma sempre in scena”, ha raccontato, spiegando che sperimentare è forse una delle cose che manca un po’ al teatro italiano. “In Israele ad esempio la scena è molto più frizzante”. Paese con cui Shammah condivide il numero di anni così come una profonda propensione a guardare con fiducia al futuro. Di cui parla a Pagine Ebraiche così come del suo passato.

Da dove inizia la storia di Andreé Ruth Shammah?

Inizia sui tetti di Aleppo, con i miei genitori in fuga dai pogrom dei siriani contro gli ebrei. È una storia che mia sorella Colette ha raccontato benissimo in un libro appena uscito (In compagnia della tua assenza). Degli amici arabi li aiutarono a fuggire ma è una storia di cui si è sempre parlato poco in famiglia così come della nostra identità ebraica. Mia madre arrivo a Milano incinta di me e i miei scelsero di rimanere e non partire per il Giappone come avevano pensato. Giappone? Si, mio padre era un commerciante e aveva viaggiato in tutto il mondo. Come tutti gli aleppini, aveva il pallino degli affari e aveva visto nel Giappone delle opportunità lavorative. Ma poi i miei rimasero a Milano e così io mi sono legata a questa città. Io qui ho messo le radici, a differenza loro che sembravano sempre pronti a ripartire, con la valigia in mano.

Del suo passato siriano ha conservato qualcosa?

Il cibo è stata la costante. La lingua, l’arabo, invece era praticamente proibito. Mia madre non voleva che si parlasse. Il francese sì: i miei genitori avevano studiato nelle scuole dell’Alliance Israelite Universelle (organizzazione ebraica fondata a Parigi nel 1860 allo scopo di combattere il pregiudizio antiebraico e antisemita e promuovere l’educazione) mentre a me avevano mandato in una scuola francese cattolica a Milano. Io sentii mio padre parlare in arabo quando andammo insieme in Israele e fu una cosa strana.

Come mai?

Perché il primo ricordo d’Israele per me non è legato ai sabra ma agli arabi. Mio padre mi ricordo mi portò a Gerusalemme e io lo sentivo continuamente parlare in arabo. Io non capivo: salutava e andava nei posti di quelli che dovevano essere i nostri nemici. E io non vedevo tutta questa differenza. Poi sono tornata in Israele nel 1967, per la Guerra dei Sei giorni. Volevo dare una mano ma arrivai a guerra già finita e alla fine andai a raccogliere meloni. Li incontrai l’Israele dei sabra.

E che rapporto ha lei con Israele?

Israele è un paese giovane ma il suo passato, la sua storia va ben al di là dei suoi 70 anni. Affonda le radici in millenni di tradizione ebraica. E io mi sento un po’ come Israele: sono una ragazzina antica. Con tanti anni di esperienza nel teatro ma ancora molto giovane. Anni in cui ha lavorato con alcuni dei più grandi registi italiani.

Guardandosi indietro, come racconta la sua esperienza in questo mondo?

Per me è difficile tirare le somme. Sono sempre stata concentrata sul mio presente, aderente alla realtà. Ho incontrato persone straordinarie, ho avuto grandi maestri ma non ho il senso di cosa è stato. Ho sempre cercato di migliorarmi, guardando avanti.

Nemmeno guardando al Teatro Parenti?
Quella è stata un’avventura iniziata con coraggio con Franco Parenti. Inizialmente la nostra era una storia d’amore che in realtà durò pochi mesi. Quello che è durato tutta la vita, fino alla sua scomparsa, è stato il Teatro: con il Parenti noi decidemmo di rompere gli schemi. Rivitalizzammo un posto allora marginale, andando contro la Milano borghese e dei suoi circoli intellettuali. Un atto di ribellione, istinto che ancora adesso sento vivo.

Istinto che la portata ad ristruttura quello che era un luogo storico di Milano, il Centro Balneare Caimi, nato nel 1933 ma chiuso da diversi anni.

È un progetto di cui sono orgogliosa. Finanziato con i soldi dei privati, è stato un modo di restituire alla città un pezzo della sua storia. È stato un progetto condiviso che ha dato vita a quelli che oggi sono i Bagni Misteriosi. Spero che ci siano altre iniziative di questo tipo. Amo questa città, mi sento milanese e qui ho trovato le mie radici. Ci sono molte più iniziative di quando ho iniziato con il teatro ma vorrei che ci fossero più gesti creativi. Israele da questo punto è un esempio: c’è un energia vitale, un desiderio di trovare nuovi linguaggi. Al Parenti abbiamo portato la danza israeliana ad esempio, con la rassegna Energie di Tel Aviv.

A proposito di Israele, lei più volte ha fatto sentire la sua voce contro chi propugna il boicottaggio.

Bisogna parlar chiaro: io non ho problemi con chi critica anche Israele. Come ogni democrazia ha i suoi difetti e possiamo criticarla. Io ce l’ho con chi critica solo Israele, chi ne è ossessionato, chi la attacca ma non guarda mai cosa succede dall’altra parte. Quello è antisemitismo. Punto.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, luglio 2018