Stereotipi
Immaginiamo quali reazioni d’indignazione ci sarebbero se un personaggio pubblico affermasse che un medico o un qualunque laureato rom, extracomunitario, ebreo, portoghese, armeno è migliore e preferibile rispetto a un medico “autenticamente” italiano. Eppure sembra che un delinquente straniero è sicuramente peggiore e più pericoloso rispetto al corrispettivo italiano “purosangue”. Anzi è proprio il male assoluto! Quante famiglie di milionari come i Rothschild e quanti “speculatori” della finanza come George Soros esistono al mondo? Però vengono in mente soltanto questi due nomi… E quanti stati esistono con conflitti in corso come Israele? Già, non è certo una giustificazione nell’astenersi da eventuali critiche o al non auspicare alla fine di questo, ma magari se dobbiamo farlo, boicottiamo anche tutti gli altri stati, un po’ per volta. In Cinecittà (Giuntina, 2018), l’ultimo libro di Lizzie Doron al quale avevo già accennato nei giorni scorsi, nell’amicizia tra la protagonista israeliana e un coetaneo arabo, Nadim, subentra costantemente la realtà del conflitto israelo-palestinese, facendo sì che il rapporto tra i due divenga praticamente impossibile. Soprattutto, qualunque azione compiuta dal governo israeliano o da qualche cittadino estremista contestata da Nadim, ricadrà per quest’ultimo sempre inevitabilmente su Lizzie. “Uno vale tutti”, l’assenza di una responsabilità individuale è un classico paradigma razzista. Se ci pensiamo bene, quando la società civile chiede a un qualunque Rom di differenziarsi dalla condotta delinquenziale del clan Casamonica, o al musulmano incontrato per la strada di denunciare a gran voce il fanatismo islamista, si annulla pur sempre la responsabilità individuale del soggetto in questione. Certo, le derive negative si combattono anche e soprattutto da “dentro”, anche se ciò dipende poi da quanto un individuo si sentirà realmente parte di un “gruppo”, di un “paese” o di una “comunità” che sia culturale o soltanto religiosa, cosa non così scontata in una società comunque iper-individualista. O dipende anche dal presupposto che una data cultura ha per colui che la sente propria, un’accezione diversa da quella percepita universalmente o in maniera pregiudiziale, correlata innanzitutto alla propria formazione culturale, affettiva, familiare o esperienziale. Cosa dovrei rispondere per esempio, se un inglese mi domandasse se ho qualche amico o famigliare mafioso, o perché non contrasto a dovere la corruzione e la criminalità organizzata nel mio paese? E se poi mi domandasse qualcosa a proposito di una qualunque scempiaggine detta da qualche politico italiano negli ultimi mesi, anni. Dovrei in qualche modo giustificarmi come italiano? Magari gli risponderei che almeno per quanto riguarda scempiaggini e politici siamo tutti abbastanza uniti.
Francesco Moises Bassano
(27 luglio 2018)