Memoria del presente

torino vercelliRicorre l’ottantesimo anniversario dell’ideazione, redazione, approvazione, promulgazione, applicazione e condivisione delle leggi razziste del 1938. Ne abbiamo parlato, ne parliamo, ne parleremo ancora. Scandire bene i termini, d’altro canto, serve per capirsi e capirci. Probabilmente non per quanti leggono d’abitudine queste note. Senz’altro a coloro che non le leggono né mai lo faranno. Tuttavia a volte le cose si dicono anche in mancanza di interlocutori, poiché il parlarne è parte di una strategia di sopravvivenza tra quanti, invece, rimangono disposti ad ascoltare. Posto questo breve esergo, qualche inciso si impone.

1) Nessuna attenuante: le leggi del 1938 non furono un errore bensì una catastrofe. Colpirono direttamente gli ebrei italiani, o che si trovavano sul territorio nazionale, ma non di meno sanzionarono la brutale svolta razzista e antisemita del regime fascista e, con esso, dell’Italia. Come tali, la loro memoria non è questione che rimandi al solo ebraismo bensì al nostro Paese nel suo insieme.

2) Nessun spazio all’alibi del nazismo: l’antisemitismo di Stato non era uno svarione del regime né una concessione al «camerata germanico» bensì la logica (ancorché per nulla ineluttabile) conclusione di una traiettoria politica che il fascismo aveva fatto propria, dove il tracciato totalitario (controllare un’intera società) si incontrava con le ambizioni imperialiste coltivate non solo dal gruppo dirigente mussoliniano.

3) Nessuna compiacenza con la falsificazione del discorso sul “carattere nazionale”: la retorica pregiudiziosa del «bravo italiano» (di contro al «cattivo tedesco»), per la quale l’applicazione delle leggi (come anche i loro effetti) si rivelò, alle resa dei conti, flessibile e quindi morbida, è una delle menzogne più dure a morire. Per essere antisemiti non c’è bisogno di essere “cattivi”; in una circostanza come questa, bastava essere conformi a quanto le istituzioni (non solo quelle fasciste!) andavano chiedendo. E così nei fatti avvenne.

4) Capire le dinamiche sociali del pregiudizio: colpire una minoranza nazionale ha molto spesso poco o nulla a che fare con ciò che gli elementi di quella minoranza dico, fanno, esprimono, rappresentano o cos’altro. L’immagine dell’ebreo nell’antisemitismo è una costruzione di pura fantasia. Proprio per questo resiste a qualsiasi riscontro con il principio di realtà, sostituendosi ad esso e istituendosi come una realtà a sé stante.

5) Comprendere le dinamiche politiche del razzismo di Stato: quando un regime politico colpisce le minoranze interne, ovvero una parte della stessa società che governa, lo fa perché ha ad obiettivo il riallineamento della maggioranza su posizioni radicali e verso orizzonti di mobilitazione. Non a caso, svoltato l’angolo del 1938, sopravvenne una tragica guerra continentale.

6) Cogliere il carattere delle leggi del ’38: la loro dimensione catastrofica, oltre che per gli effetti immediatamente misurabili sulle vittime, stava in un fatto fondamentale, ossia nell’introduzione all’interno dell’ordinamento italiano della cittadinanza revocabile. Non era un principio giuridico ma una condizione di fatto: in base ad un criterio di valutazione razzista, una persona poteva essere privata di aspetti altrimenti imprescindibili e insindacabili della sua condizione di cittadino. Un passo indietro di qualche secolo, per intenderci.

7) Identificare la catena effettiva di corresponsabilità: la colpa, se in tali termini si vuole ragionare, non stava nel “cattivo esempio” che arrivava dalla Germania né nel desiderio imitativo di Mussolini e dei suoi sodali. A raccontarla in questi termini si sfiora il parodistico. Semmai, ad avere concorso alla partitura e alla regia di una tale tragedia nazionale fu una coalizione di poteri, fascisti e non. Non era necessario, nel qual caso, che facessero qualcosa. Bastava che lasciassero fare. Anche se parte d’essi si offrì, senza tanti complimenti, di fare, a partire dalla monarchia.

8) Evitare la banalizzazione del male (che non è la cosiddetta «banalità del male»): si dice antisemitismo e si pensa subito ad Auschwitz. Come se il secondo ci offrisse una chiave di lettura del primo. Ma non funziona così, anche se molti ritengono che la pericolosità o comunque l’inaccettabilità del primo sia in funzione esclusiva del secondo. Senza Auschwitz, allora, le leggi del ’38 sarebbero meno inaccettabili? Il fatto che esse avessero inciso nel corpo del nostro Paese ben prima dell’autunno del 1943, non è questione da fare oggetto di severissimo giudizio politico, oltreché morale? Il razzismo di Stato non è detestabile dal momento in cui inizia a produrre i suoi prevedibili effetti, ossia dei cadaveri. Poiché a morire, prima ancora che gli individui nel senso biologico del termine, è la coscienza civile e la reciprocità sociale che il razzismo stesso spezza, inoculandosi come un veleno fetido tra la collettività. Poiché uccide giorno dopo giorno, dal momento in cui si presenta con il suo vellutato abito di rispettabilità.

9) Riflettere sulle sincronie e sulle diacronie: ragionare sulle leggi del 1938 è utile e necessario se ciò ci aiuta a comprendere le dinamiche del presente. Non per giocare alle facili assonanze, alle sovrapposizioni, ai biechi travasi che la “concorrenza tra le vittime” (io ho sofferto più di te!) oggi sono innescati nei dibattiti pubblici, ma per capire quali siano i meccanismi della perversione che operarono allora così come potrebbero tornare ad operare adesso.

10) La storia è sempre contemporanea, diceva “don” Benedetto Croce, ovvero: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» (ne «La storia come pensiero e come azione», 1938).

Claudio Vercelli