Sukkot e il significato del salice
Tra poco, a Sukkot, gli ebrei impugneranno il Lulav per ripetere il rito prescritto già nella Torà da Mosé. Da allora Profeti e Maestri si sono sbizzarriti a trovare significati reconditi in questo rito e nelle singole componenti del Lulav.
Come in molti altri casi e aspetti rituali dell’ebraismo risulta evidente il linguaggio agricolo del rito cui i Maestri hanno associato altri valori, morali e filosofici. I nostri Padri erano agricoltori e i Maestri parlavano loro con un linguaggio che potessero capire e di cui potessero cogliere i più sottili risvolti e sottintesi. Le Quattro Specie rappresentano anche quattro tipi del popolo d’Israele. Noi qui ricordiamo solo l’aravà di fiume (o ruscello). Le aravòt non sono né commestibili né emanano un buon aroma, come l’ebreo che è privo di Torà e mitzvòt, ma è ancora legato alla comunità ebraica come i rami di salice sono legati al lulav. Un’altra serie di interpretazioni legano le Quattro Specie alla storia dei Patriarchi: e il paragone che viene fatto per l’aravà è con Yosef, la cui posizione era quella di un padre del popolo ebraico. Ma come l’aravá appassisce prima delle altre specie, così Yosef morì prima dei suoi fratelli. Nel Midrash troviamo l’interpretazione simbolica del desiderio di unire quattro tipi di ebrei al servizio di D-o: l’aravà non possiede né sapore né odore, e, di conseguenza è stata presa a simbolo di coloro che non fanno né buone azioni e neppure studiano la Torah, non sono né generosi né sapienti. Tuttavia fanno ugualmente parte della Comunità di Giacobbe e ad essa restano legati, come i rami di salice al lulav.
Ma il salice non era impiegato solo per essere unito al Lulav, ma aveva anche un utilizzo agricolo come materia prima di (economici) contenitori di derrate. Nel trattato di Bikurim della Mishnà (Cap. 3 Mish.8) sono descritti i cesti fatti di vimini di salice decorticato. Cesti nei quali venivano posate le varie specie offerte come primizie a Shavuoth al Tempio per essere consegnate al Sacerdote che (Deut. 26:4) prenderà il cesto (direttamente) dalle tue mani, sottintendendo che il Sacerdote vedrà che il cesto è frutto del lavoro delle tue mani. I ricchi invece utilizzavano cesti intrecciati di oro e argento, che venivano restituiti all’offerente, una volta svuotati. Ma la flessibilità dei vimini era (è) utilizzata anche in altre applicazioni, per esempio per legare rami e tralci ad un sostegno conferendo alla pianta una forma particolare, voluta. Oggi purtroppo la capacità di utilizzo dei vimini (bisogna saper fare le legature) è scemata e si preferiscono legacci in plastica e filo di ferro (costosi ed inquinanti) che, per giunta rischiano di strozzare il ramo legato (a differenza del vimine).
È bene ricordare che non tutte le specie di salice sono consentite nel lulav. In Israele la specie autoctona (e quindi corrispondente a quella delle prescriscrizioni bibliche) è il Salix acmophylla. Boiss, molto simile al salice bianco (S.alba), ma in Italia il S. acmophylla non esiste. Tuttavia data la somiglianza e la presenza, anche se in quantità ridotta, viene normalmente impiegato il salice bianco. Non è ammesso invece il salice detto”piangente” abbastanza diffuso a scopo ornamentale che scientificamente è denominato Salix babylonica. Questa specie, anche se presente in Medio Oriente, si ritiene provenga dalla Cina e non esiste in Israele (allo stato spontaneo). Un secondo rito distinto da quello del lulav è quello che utilizza sempre il salice nel giorno di Hoshanà Rabbà. In ricordo delle processioni (hakafot) che si svolgevano intorno all’Altare del Tempio, portando grandi rami di salice (per lo più raccolti nel villaggio di Motza a sud ovest di Gerusalemme), oggi, in mancanza del Tempio, quel rito è stato modificato girando ripetutamente intorno alla Tevà sulla quale sono portati tutti i Sefarim. Alla fine delle processioni si prendono mazzi di cinque rami di salice (diversi da quelli del lulav) dotati almeno di una foglia ciascuno e si battono per terra cinque volte per simboleggiare la richiesta di mitigazione delle 5 misure di severità (della punizione divina).
Ma vi è un altro aspetto, meno noto e discusso: il contenuto di sostanze chimiche, utilizzabili a scopo medicamentoso, delle specie costituenti il Lulav. Il papiro di Ebers, una raccolta di 877 ricette mediche della metà del secondo millennio a.E.V.(l’epoca della presenza degli Ebrei in Egitto), acquistato durante il XIX secolo dall’egittologo tedesco Georg Ebers da un ambulante Egiziano, raccomandava un’infusione di foglie di mirto essiccate per la cura dei reumatismi e del mal di schiena. Il motivo di tale efficacia terapeutica allora era ignoto, ma oggi, alla luce di studi e scoperte ben più recenti, sappiamo che nelle foglie del mirto usate dagli Egiziani per alleviare il dolore fosse contenuto proprio acido salicilico di cui allora (e ancora per quasi 2 millenni) fosse ignota la natura e la stessa esistenza. Circa un migliaio di anni dopo, Ippocrate da Kos (460-377 a.E.V.), considerato il padre della medicina, prescriveva un succo, estratto dalla corteccia del salice, come analgesico e antipiretico, oltre che per le doglie del travaglio. Anche Ippocrate non ha saputo spiegare la causa e il motivo della bontà del rimedio da lui individuato. Si dovette attendere il 1828 per arrivare al salice: J. A. Buchner, farmacologo, preparò un estratto acquoso di corteccia di salice , dal quale eliminò le impurità e lo fece evaporare. Ottenne così una sostanza giallognola che chiamò ‘salicina’. Ma solo nel 1859 Adolph W. H. Kolbe, chimico,a Marburg in Germania, spiegò con successo la struttura chimica dell’acido acetilsalicilico, che riuscì anche a sintetizzare. Friedrich Bayer e Friedrich Weskott, due amici di Wuppertal in Germania, non sapevano nulla di medicina, ma si intendevano a fondo di colori. Insieme, nel 1863, fondarono la società generale ‘Friedr. Bayer & Co.’, con lo scopo primario di produrre colori all’anilina. Per molti anni anche se non era esattamente al centro dei suoi interessi tecnico commerciali, l’azienda cercò di sintetizzare una forma ‘raffinata’ di acido salicilico, che pur giovando per certi disturbi era difficilmente tollerato dai pazienti per i danni e le reazioni che produceva ai tessuti dello stomaco. Si dovette attendere il 1897 affinché un ricercatore della sezione farmaceutica della Bayer, (creata soltanto 9 anni prima) Hoffmann, durante la ricerca, per suo padre, di un antireumatico, efficace e meglio tollerato di quelli disponibili allora, riuscisse a produrre il primo acido acetilsalicilico (ASA), chimicamente puro e stabile, decisamente più adatto all’uso terapeutico. Nacque così il nuovo farmaco della Bayer, più comunemente noto con il nome commerciale di Aspirina (nome derivato dalla Spirea, pianta ornamentale che ne contiene in abbondanza). È quindi soltanto da poco più di un secolo che sappiamo che il principio attivo di questo succhi vegetali, malgrado l’origine diversa, ma tutti capaci di lenire effettivamente il dolore, contengono la stessa sostanza: l’acido salicilico. Il nome di questa sostanza medicamentosa, essendo stata studiata per la prima volta con metodi chimici moderni nel salice, deriva dalla parola latina con cui si indica il salice: salix.
Sulla base di questi elementi, sorprende e solleva interrogativi il fatto che due delle specie ritualmente prescritte per la composizione del lulav siano entrambe così ricche di sostanze medicamentose (le altre due specie le studieremo in futuro). Gli ebrei erano al corrente delle doti di queste piante? La scelta rituale aveva un significato di omaggio e ringraziamento al Rofeh holim ( Medico che guarisce i malati dall’ alto dei Cieli) e che ringraziamo almeno tre volte al giorno all’inizio dell’‘Amidà? Benché suggestiva, non sono riuscito a trovare documentazione a supporto di questa interpretazione. Tuttavia questi elementi portano a pensare che anche l’ebreo che, come l’aravà, non possiede né sapore, né odore, non fa buone azioni, né studia la Torah, possa avere elementi nascosti positivi, utili agli altri e per questo, malgrado le apparenze, è giusto tenerlo legato alla Comunità, come l’aravà al lulav.
Roberto Jona, agronomo
(23 settembre 2018)