Due nomi, molte angosce
Due parole, solo due parole, transitando di fretta, questa volta, su questa pagina. La prima parola è un nome, Asia (Bibi). C’è qualcuno che stia dedicando in “Occidente” la necessaria attenzione a quanto sta avvenendo in Pakistan intorno alla sua persona, ovvero alla costruzione di un immaginario satanico che va alimentando una montante marea d’odio, che rischia di travolgere le stesse istituzioni legali, che già hanno fatto – almeno in parte – retromarcia rispetto alla legittima se non indispensabile sentenza di assoluzione (una evidenza dei fatti e null’altro, che ora viene stravolta dalle isteriche, misogine, plateali manifestazioni di piazza animate da sobillatori di ogni risma, nel nome di una concezione della religione che è vissuta come pura violazione dei più elementari precetti umani)? Scusatemi, scusateci: il problema non è solo dei pakistani ma di tutto il mondo. Finché non prenderemo atto di questo aspetto fondamentale, continuando a dividerci e contarci in “pro e contro”, in “relativisti e assolutisti”, in “comprensivi e indisponibili”, in “buonisti e cattivisti”, saremo comunque perdenti. Poiché c’è una marea montante, che certo nasce e si alimenta con la complicità di un fondamentalismo dilagante in paesi dove una parte della popolazione è disposta ad accoglierne gli echi criminali e che tuttavia trova terreno fertile anche altrove. In un effetto di costante rispecchiamento. Ad esso, fino ad oggi, ben poco è stato contrapposto che non fosse l’illusorio confine del: “basta che non avvenga in casa nostra”. E lo si è fatto pensando che l’eccesso di disponibilità, il quale si trasforma in silenziosa collusione (il relativismo dell’equivalenza morale tra “culture”), o l’abuso di indisponibilità, che si trasfonde in gratuito rifiuto a prescindere dal merito specifico dei problemi (l’assolutismo imbelle delle “guerre di civiltà”), fossero le risposte plausibili. Evidentemente non funziona così, poiché il problema resta e non è solo riconducibile al terrorismo contro gli “occidentali” ma anche e soprattutto alla repressione contro la società civile dei paesi musulmani. Ci torneremo, poiché è una questione di primaria importanza. Il secondo nome è quello di Jean-Luc Mélenchon, esponente de La France Insoumise («La Francia sovrana»), per come lo racconta, in un vivido, pugnace e angosciato articolo Bernard-Herni Lévy sulla stampa di ieri. Che sta traghettando una parte della sinistra verso approdi populisti. Dopo il fallimento delle “terze vie”, nel declino dei partiti industrialisti, quello che resta del bipolarismo tra destra e sinistra sempre più spesso va concorrendo per l’acquisizione della palma del “maggiormente sovrano”, del “più vicino al popolo”, dell’estremo intransigente. Dietro questa dinamica di avvitamento c’è la trasformazione della rappresentanza dei bisogni collettivi nel rantolo rabbioso degli impotenti, scambiato per un grande e risolutivo impegno di autoaffermazione. Il rischio che questa condotta, basata su un’indignazione cieca e senza futuro, si trasformi invece in un indistinto urlo di guerra, che divora qualsiasi mediazione politica, è dietro l’angolo. Anche una tale condotta, in prospettiva, diventa un fondamentalismo, ancorché di segno diverso, secolarizzato ma profondamente illiberale. Su una deriva, scambiata per affermazione di orgoglio, dovremo tornarci sopra a sua volta. Non è un caso che ad essere sottoposte al fuoco di fila dell’una e dell’altra intransigenza belluina siano ancora una volta non solo le minoranze ma anche i diritti alla differenza. Nella falsa convinzione – tipica dei totalitarismi di ritorno – che l’uguaglianza perduta possa essere riacquisita attraverso l’omologazione degli individui ad un un’unica modalità di esistenza, della quale ovviamente i vertici carismatici del partito-movimento-religione o cos’altro sia si incaricheranno di dare le “giuste” coordinate. Il richiamo alla guerra (che non è solo quella che si fa sui campi di battaglia, nelle trincee) è forse tanto più opportuno dal momento che oggi ricordiamo il centenario della conclusione di una grande carneficina, la Prima guerra mondiale, dove i nazionalismi più esasperati portarono cento città e un’intera generazione alla più cupa dissoluzione.
Claudio Vercelli